ULTIMI ARTICOLI

La luce in fondo al tunnel Viola

0

E così siamo alle solite. Un altro piccolo uomo senza palle, senza onore e senza rispetto che se ne va nella squadra senza identità e appartenenza per antonomasia. Un’altra proprietà che dopo aver sbandierato l’amore per il “popolo viola” fa quello che hanno fatto i loro predecessori: vendere i nostri migliori giocatori ai rivali storici. Non ci stupiamo più di niente e non ci strapperemo certo i capelli per aver perso l’ennesimo buffone. Ma una domanda vogliamo farla alla persona a cui un’intera comunità ha dato totale fiducia. A Lei Presidente.

Cosa le hanno raccontato per convincerla a fare una cosa del genere? Lei che al Meyer aveva deciso di non vendere l’altro giocatore di fronte ad un bimbo che glielo chiedeva, faccia i complimenti a Barone, che deve essere stato convincente raccontandole chissà cosa per farle fare un’operazione che sì, avrà portato soldi, ma che le ha fatto perdere la faccia di fronte ad una città intera e non solo. Come è possibile che Lei abbia avallato la decisione di fare affari con chi rappresenta il male assoluto di quel sistema che fino a ieri combatteva? Pensavamo, orgogliosamente, di esserci lasciati alle spalle il periodo nero di plusvalenze ed affari con l’innominabile, per poi ripiombarci in un istante“.

Una città che aveva abbracciato in toto le sue battaglie, e che avrebbe continuato ad abbracciarle anche in futuro, si è sentita abbandonata e tradita. Non sarà una caricatura anonima attaccata probabilmente sulle onde della delusione a poter rappresentare il pensiero di Firenze, a meno che non sia questo ciò che vogliono farle credere. Sarebbe stato più giusto che ad esser rappresentato su Ponte Vecchio, non fosse tanto lei, bensì coloro che l’hanno spinta a prendere questa decisione, che ha, in maniera incontrovertibile, riacutizzato il dolore di ferite mai risarcite.

Noi Rocco non tifiamo Fiorentina per i trofei o le vittorie. La nostra vittoria più grande è e sarà sempre l’essere fiorentiniamiamo i nostri colori amiamo la nostra identità di cui andiamo fieri e orgogliosi. Siamo stati al suo fianco in tutte le battaglie intraprese dallo stadio, al centro sportivo fino alla lotta per cambiare quel sistema che noi ormai conosciamo da decenni.

Non siamo disposti a veder calpestata la nostra passione: soprattutto dall’ennesima operazione fatta dai suoi uomini di mercato che sinceramente ci sembra non rappresentino per niente il suo modo di vivere questa avventura insieme a noi. L’attendiamo con ansia Presidente. La Fiorentina e la sua gente hanno bisogno di Lei qui. Non noi, ma una città intera l’aspetta per capire. L’ultimo messaggio vogliamo darlo alla squadra che è la cosa che in questo momento conta davvero. Avete dimostrato di avere gli attributi, siamo con voi. Altre battaglie ci aspettano magari per far rimpiangere a qualcuno di essersene andato di notte come un codardo”.

Dichiarazioni queste da parte degli ultras della curva Fiesole che rendono sicuramente l’idea dell’aria che tira in quel di Firenze. Nella città si è passati nel giro di dieci giorni da un clima sereno ed euforico ad uno stizzito, nervoso, rabbioso e quasi triste.
La cessione di Vlahovic agli storici nemici della Juventus ha scatenato un terremoto come non si vedeva da tempo in Toscana. La Viola, nella sua migliore stagione degli ultimi anni, si vede privata della sua punta di diamante a metà stagione. Ciò costringe la società, anche se in maniera lieve e non definitiva, a rivedere i propri piani. I tifosi della Fiorentina, però, si stanno ponendo tanti quesiti su quello che sarà il futuro della loro squadra. Ma soprattutto su come Commisso ha intenzione di muoversi nell’immediato futuro.

Fin dal 6 giugno 2019, data di acquisizione del club, il patron italo-americano ha manifestato la volontà di riportare la Fiorentina stabilmente nelle posizioni nobili della classifica e a giocare in Europa con frequenza. Ma ci sta veramente riuscendo? La domanda dunque è questa, e si spinge anche al di là del caso Vlahovic, che sicuramente dà l’appiglio per tirare in ballo questo argomento. Alla terza stagione da presidente, Commisso e i suoi hanno definito quello che è il reale traguardo da raggiungere per questa squadra? Ci si accontenta della mediocrità nella quale spesso e volentieri il club ha versato o si vuole puntare a raggiungere ciò che decantava il presidente al suo arrivo? A Commisso sta bene che la sua sia una squadra di medio-alta classifica ma pur sempre inferiore alle prime sette della classe? O è più ambizioso?

La Fiorentina, se si prendono in esame gli ultimi quarantuno campionati, ha la media dell’ottavo posto in classifica. E la tendenza precedente sin qui non sembra essere stata invertita dall’imprenditore nativo di Marina di Gioiosa Ionica. La media delle ultime tre stagioni parla di decimo posto in classifica.

Ci si chiede quindi cosa abbia fatto e abbia intenzione di fare la società per garantire un futuro migliore alla Fiorentina e ai suoi tifosi. La cessione di Vlahovic, e in precedenza anche quella di Chiesa, sono entrambe avvenute in situazioni, seppur in circostanze differenti, simili. Il primo lascia orfana dei suoi goal una squadra in piena lotta per l’Europa per andare a rinforzarne un’altra. Il secondo lasciò il capoluogo fiorentino negli ultimi giorni del mercato estivo del 2020 senza mai essere stato realmente rimpiazzato.

E se possiamo parzialmente giustificare la dirigenza per come sono andate le cose, dato che è difficile trattenere un ambizioso ragazzo di ventuno anni, a fronte anche delle faraoniche richieste del suo agente, è pur vero però che la Viola da queste due onerosissime cessioni ha incassato, o perlomeno incasserà, 135 milioni di euro. Ciò si traduce in un solo modo: mercato.

Ma parliamo di un mercato fatto bene anche in ottica estate. Alla Fiorentina, come abbiamo già detto in precedenza, manca un esterno di gamba che possa sostituire degnamente Chiesa. Non si può chiedere a Callejon l’impossibile dati gli ormai quasi trentacinque anni dell’ex Napoli. Ecco allora ecco che può tornare in voga il nome di Berardi, l’unico con tali caratteristiche a prezzi accessibili sul mercato. Per il ruolo di centravanti invece, l’indiziato principale per sostituire il 9 serbo sembra essere Scamacca, anche se per il bomber neroverde si parla già di cifre importanti e apprezzamenti da parte di big italiane ed estere. Ed è proprio questo il punto a cui volevamo arrivare.

L’Europa, qualunque essa sia, è fondamentale nel percorso di crescita che deve percorrere la Fiorentina. Probabilmente nemmeno la permanenza di Vlahovic fino a giugno avrebbe garantito ai toscani la certezza di giocare in Europa la prossima stagione, ma sicuramente avrebbe aiutato. E proprio la partecipazione alle coppe europee è di vitale importanza anche sul mercato in entrata e in uscita. Di certo non si possono trattenere due astri nascenti del calcio dalla voglia di vestire la maglia della Juve, ma si possono invogliare a rimanere.

E come? Tramite un progetto ben strutturato e a lungo termine, che darebbe loro la possibilità di giocare in una grande Fiorentina, e, allo stesso tempo, avvicinerebbe a Firenze con molta più facilità anche giocatori come quelli sopracitati. Se Vlahovic e Chiesa escono, ed entrano Berardi e Scamacca la squadra resta comunque competitiva.

Questa progettualità però, fino ad adesso, si è vista più su fattori extra campo. Ad esempio viene in mente la costruzione del nuovo centro sportivo, il Viola Park, che sul mercato e nella ristrutturazione della squadra.

L’Europa è dunque ciò che serve alla Fiorentina per crescere, per aumentare le proprie ambizioni e allo stesso tempo diventare ambita.

E se fino a giugno toccherà ad Italiano dimostrare ulteriormente le proprie qualità anche senza i goal di Vlahovic, ma con quelli che sicuramente porteranno Piatek e soprattutto Cabral, dal primo luglio in poi sarà Commisso a doversi prendere la scena. Perché ci abbiamo tenuto a sottolineare Cabral? Perché se la fama di goleador di Piatek è già nota qui in Italia, il brasiliano è un giocatore ai più sconosciuto, ma che è realmente forte. Il suo rendimento in Svizzera parla da sé; 106 presenze, 65 goal e 17 assist, statistiche da grande centravanti. E non dimentichiamoci che nella stagione in corso è stato anche convocato per la prima volta dalla Seleçao. Perciò le premesse per sostituire alla grande Vlahovic ci sono tutte.

Dunque, adesso arriva un momento tanto complesso quanto intrigante per i toscani. Bisogna dimostrare a tutti che la bella Fiorentina ammirata sin qui non era così bella solo grazie ai goal di Vlahovic. Tocca ad Italiano far vedere a tutti la sua bravura, la sua capacità di dare, come sin qui ha brillantemente fatto, la propria impronta alla squadra. Giunge il momento per i giocatori di mettere in mostra ancora di più le proprie qualità. Sarà poi il turno di Commisso, al quale spetta il compito di rispettare le promesse fatte alla tifoseria, che vuole e merita di tornare a sognare in grande. La sua missione adesso sarà quella di agire nel bene di Firenze e della sua Fiorentina, per restare come lui ha affermato nella storia e nell’immaginario comune dei tifosi e della città.

Lorenzo Lucca: la Torre di Pisa pronta a prendersi la Nazionale

0

La nostra Nazionale quest’estate ci ha lasciato notti che resteranno nell’immaginario comune per un bel po’. La vittoria ad Euro2020 è stato l’apice di un cammino tortuoso iniziato nell’ormai lontano 2018 da mister Mancini. Un trionfo arrivato grazie ad una grande organizzazione di squadra, ma soprattutto grazie ad un gruppo di 26 amici.


Questa squadra ha portato una ventata di positività al paese dopo un periodo buio come quello che abbiamo passato negli ultimi venti mesi. E oltre all’ondata di gioia suscitata in tutto lo stivale, ha mandato un altro segnale importante. Il Mancio ha mostrato a tutti come anche in Italia il calcio possa cambiare.

Via il vecchio e obsoleto catenaccio e contropiede che per decenni ci ha distinto nel mondo, spazio al “bel gioco”. Possesso palla elevato, combinazioni in mezzo al campo e tanta, tantissima qualità, quella che hanno mostrato gli Azzurri in giro per l’Europa non più di quattro mesi fa.

Una proposta di calcio, quella del CT marchigiano, che per essere messa in atto alla perfezione, necessita di alcune figure. Centrali in grado di impostare, e chi meglio di Bonucci. Terzini di gamba che possano sovrapporsi costantemente, e salvo infortuni uno come Spinazzola ha pochi eguali in Europa. Un palleggiatore, con Jorginho che sembra calzare a pennello con quest’idea di calcio. Mezzali di qualità e abili nell’inserimento, e ce ne sono a bizzeffe, basti pensare a Barella, Locatelli, Pellegrini e Verratti. Esterni d’attacco capaci di inventare la giocata e sfruttare la loro velocità, e anche qui Mancini ha l’imbarazzo della scelta. E poi un centravanti dinamico, che sappia aiutare la squadra nella manovra, che venga a prendersi il pallone basso, che faccia movimento e apra spazi per gli inserimenti dei compagni.

Arriviamo quindi ora alla nota dolente. Le punte che ormai da cinque anni si spartiscono il posto nell’undici titolare sono il Gallo Belotti e Ciro Immobile. Il problema è però che nessuno dei due sembra sposarsi con quella che è l’idea di calcio dell’allenatore. Il 9 del Torino è un attaccante fisico, che fa a sportellate con gli avversari, potente e abile nel gioco aereo. La Scarpa d’Oro della stagione 2019/2020 invece nella Lazio è abituato ad essere servito in profondità per sfruttare la propria rapidità ed essere letale negli ultimi sedici metri.

Facile intuire come quindi nessuno dei due possa rendere al meglio in Nazionale. E proprio per questo motivo, il bomber oplontino, che ha giocato da titolare l’Europeo, è stato bersaglio di molte critiche. C’è chi l’avrebbe voluto fuori, per fare spazio ad un fin troppo giovane ed inesperto, seppur più dinamico, Raspadori. Chi invece avrebbe preferito giocare con il falso nueve, come ha fatto la Spagna contro di noi, mandandoci in dannata difficoltà.

L’unica conclusione che però si è tratta è che, nonostante la vittoria di Euro2020, una soluzione per quanto riguarda la questione centravanti vada trovata il prima possibile, magari entro Qatar 2022, se ci si arriverà. Stando però a quello che vediamo tutte le domeniche sui campi di Serie A, è difficile individuare un attaccante che possa togliere ad Immobile la palma di centravanti della Nazionale.

Incredibilmente però, una possibile alternativa, perché definendola soluzione accelereremmo troppo i tempi, si trova scendendo di categoria. In Serie B, che quest’anno è avvincente come al solito, c’è un ragazzone di 201 centimetri che ha segnato sei goal in questo avvio di stagione. Insieme al suo Pisa è terzo in classifica, a meno due dalla capolista Brescia, e sogna di riportare i toscani in Serie A, dove manca ormai da trent’anni.

Si chiama Lorenzo Lucca, ed è il fuoriclasse, nel vero senso della parola, del campionato cadetto.
Arriva da Palermo, dove in Serie C la scorsa stagione ha totalizzato 13 centri in 27 presenze. Numeri importanti per un giovane di vent’anni e che hanno folgorato il presidente rosanero. Il patron Mirri sostiene fermamente che senza il suo infortunio il Palermo avrebbe vinto i playoff. Si dice poi estremamente deluso per la sua cessione, per una cifra, a suo modo di vedere, esageratamente bassa per quello che sarà il futuro numero 9 della Nazionale. Arriva così a Pisa, dove quest’anno sta vivendo la sua prima stagione di Serie B.


Lucca però prima di raggiungere Pisa ha fatto anni di quella gavetta che purtroppo troppi ragazzi suoi coetanei non fanno. Nasce a Moncalieri, provincia di Torino, ed entra già ad otto anni nel settore giovanile granata. A sedici viene scartato ed inizia il suo peregrinare per tutto lo stivale. Scende in promozione, poi esordisce in C con il Mantova, e infine nel 2018 se lo riprende il Toro per la Primavera. Quando sembra poter arrivare la sua chance, ecco il prestito a Brescia, dove rimane comunque in Primavera. Poi la svolta con l’arrivo in Sicilia, e adesso la consacrazione a Pisa.
Abbiamo però iniziato il nostro discorso soffermandoci sul dilemma riguardante l’attaccante del presente e del futuro azzurro. E quindi perché proprio Lucca dovrebbe essere il giocatore che fa al caso di Mancini?


Il talento piemontese ha caratteristiche tecniche e fisiche ancora differenti da Immobile e Belotti. Assomiglia particolarmente a Luca Toni, del quale sta ripercorrendo anche le tappe della carriera: Vicenza, Brescia e Palermo. Parliamo di un attaccante facente parte di quella categoria di “bestioni tecnici” che vediamo sempre più giganteggiare sui campi di tutta Europa. Per rendere meglio l’idea di cosa intendiamo per “bestione tecnico” basta fare qualche esempio: Dzeko, Ibrahimovic, Haaland, Vlahovic, e perché no anche Haller, tenendo conto ovviamente delle dovute proporzioni, fanno tutti parte di questa specie. E Lucca ha tutte le carte in regola per poter entrare a far parte di questa élite dei numeri nove.

Innanzitutto ha l’età dalla sua parte, e poi le caratteristiche tecniche sono pressoché quelle. A tratti sembra essere un centravanti vecchio stampo. Lavora, inevitabilmente, molto con il fisico, ma a questo tipo di lavoro abbina anche una grande forza nelle gambe. Imposta le proprie azioni e giocate perlopiù sul suo strapotere fisico e una brutalità fuori dal comune. Non tocca molti palloni, in quanto passa più tempo a duellare con il difensore avversario, ma quando lo fa non delude.

Nonostante la tecnica non sia quella di un numero 10, riesce spesso in giocate complesse, ed è sempre partecipe nella costruzione del gioco. In più ha fornito al Pisa una soluzione di grandissima importanza che gli altri anni non aveva, quella della palla lunga su di lui. Con la sua stazza infatti è il principale bersaglio dei lanci dalla difesa, che controlla proteggendo il pallone, attirando su di sé avversari e aprendo varchi per i tre che giocano alle sue spalle. E poi, cosa non meno importante di tutto il resto, segna in qualsiasi modo. Di destro, di sinistro, di testa, anche dalla distanza a volte.


Il suo idolo più grande è Ibrahimovic, ma si ispira anche a Dzeko, dal quale sembra aver ripreso anche lo stile di vita sano. Va a dormire presto la sera, non si concede quasi mai peccati di gola e il suo piatto preferito è la pasta. Ama la Playstation e le serie tv come tutti i ragazzi della sua età, adora il mare e non ha tatuaggi. Un ragazzo educato, così ce lo descrive chi ha avuto a che fare strettamente con lui, senza grandi grilli per la testa, nonostante le insistenti voci di mercato dell’ultimo periodo sul suo conto.


In una fase delicata come quella che sta attraversando Mancini alla guida degli Azzurri, chissà che non possa essere proprio Lucca il tassello mancante del reparto offensivo della Nazionale. D’altronde il CT non più di un mese fa ha mostrato apprezzamento verso il ragazzo, dicendo di tenerlo in considerazione per il futuro. Forse però, una sua chiamata potrebbe essere imminente. La data cerchiata sul calendario è quella di Marzo 2022, quando l’Italia si giocherà l’accesso ai prossimi mondiali nei playoff come quattro anni fa. Magari Mancini, che pare stia pensando a stravolgimenti tattici, come il passaggio al 4231 o al 352, terrà in considerazione la “Torre di Pisa” per riuscire a staccare un ultimo biglietto per il volo che tra più o meno un anno partirà per il Qatar.

Intanto lui continua a stupire in B e con l’under 21, ma il salto tra i grandi è sempre più vicino ed inevitabile.

15 Dicembre 1995: la sentenza Bosman ha cambiato il calcio e la vita dei calciatori.

0

Al giorno d’oggi tutti i calciatori dovrebbero conoscere la storia che riguarda il centrocampista belga Jean-Marc Bosman, ma soprattutto dovrebbero essergli grati. Se ormai a livello europeo, nelle rose delle squadre, non vi sono più limiti di numero riguardanti i calciatori stranieri, ma soprattutto se gli ingaggi dei professionisti ormai hanno raggiunto cifre milionarie, è solo grazie alla testardaggine ed all’audacia di quest’uomo e del suo avvocato, Jean-Luis Dupont.

Potrà sembrare assurdo, ma agli inizi degli anni ’90, nel calcio europeo, vi erano due regole della UEFA poi dimostratesi totalmente incompatibili con il diritto comunitario.

La prima prevedeva che un calciatore cittadino di uno Stato membro dell’UE, arrivato alla scadenza del proprio contratto con il club di appartenenza, la cui sede si trovava nel territorio Comunitario, non potesse passare ad un’altra squadra in assenza del versamento di un indennizzo a favore del club d’origine. In pratica non esisteva il concetto di “parametro zero” come lo intendiamo oggi.

La seconda invece limitava il numero di calciatori di nazionalità straniera (quindi di diverso Stato membro) che potevano essere schierati nelle rose dei club europei.

Jean-Pierre Bosman si trovò nella problematica situazione riguardante la prima fattispecie ed avverso la quale decise di agire innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. L’istanza mossa dal suo avvocato aveva come scopo quello di far valere dei diritti acquisiti e ritenuti inalienabili.

In un primo momento Bosman e Dupont ebbero contro sia la UEFA, sia la RBF (Federazione Calcistica Belga), ben consapevoli del fatto che il dilemma sollevato, qualora avesse trovato terreno fertile, avrebbe cambiato per sempre la giurisprudenza calcistica europea.

Si manifestò senza alcun dubbio una grande contraddizione all’interno della Comunità Europea, con la possibilità teorica da un lato e l’impossibilità pratica dall’altro, di poter svolgere il proprio lavoro in armonia con il concetto di libera circolazione delle persone.

Dopo un’aspra diatriba legale, durata ben 5 anni, la corte riscontrò l’illegittimità delle regole di cui sopra, contrarie all’art. 39 CE, poiché il legame tra il sodalizio calcistico e lo Stato membro nel quale esso stabilisce i propri interessi, non può considerarsi inerente all’attività sportiva ed in quanto tale è sottoponibile alle norme di diritto comunitario.

Si deve rilevare che il legame fra una società calcistica e lo Stato membro nel quale essa è stabilita non può considerarsi esclusivamente inerente all’attività sportiva, in ogni caso non più del legame che unisce tale società al suo quartiere, alla sua città o alla sua regione. Nei campionati nazionali si affrontano società di regioni, di città o di quartieri diversi, ma nessuna norma limita, relativamente a tali partite, il diritto delle società di schierare in campo calciatori provenienti da altre regioni, da altre città o da altri quartieri. 

Tali risultanze tratteggiano una deroga ai principi comunitari poiché i giudici della Corte non intesero deregolamentare i trasferimenti dei calciatori, ma ritennero che le norme sportive controverse fossero eccessivamente vincolanti per gli atleti o comunque inadeguate agli obiettivi perseguiti.

La sentenza Bosman avrà dunque una valenza erga omnes ed il sacrificio del singolo, caduto nell’oblio dopo la nota vicenda poiché ritenuto personaggio scomodo, sarà di aiuto per tutte le future generazioni.

Oggi come già detto in precedenza non vi sono limitazioni di tesseramento per i cittadini UE e soprattutto i trasferimenti degli atleti in scadenza di contratto avvengono a parametro zero: ciò significa che le società di destinazione non sono tenute a pagare alcunché alla società per la quale l’atleta prestava in precedenza la propria attività. Conformemente ai principi comunitari in materia di libera circolazione dei lavoratori, una volta scaduto il contratto di lavoro fra club e atleta (quindi una volta venuto meno il Vincolo di Appartenenza), l’atleta svincolato è libero di negoziare a proprio piacimento le condizioni del successivo contratto di lavoro, senza ingerenze di terzi. 

In questa breccia creata dalla sentenza Bosman si va ad inserire nel tempo prepotentemente il ruolo dell’Agente Sportivo, che ha come scopo principale quello di cercare e creare situazioni che siano più vantaggiose per il proprio assistito. È facile comprendere che laddove un sodalizio sportivo non sia tenuto a versare alcunché alla vecchia società, sarà maggiormente disposto a riconoscere al calciatore un ingaggio più elevato ed una commissione “importante” al proprio agente.

Nascono da qui tutte quelle situazioni che ci ritroviamo a leggere quotidianamente e che i più ritengono “opinabili”. Vedi il “caso Donnarumma” oppure le questioni rinnovo riguardanti Vlahovic, Insigne, Kessie, Belotti…e tanti altri.

Voi al posto di Donnarumma cosa avreste fatto? E’ corretto il modus operandi di Mino Raiola? Egli sapendo di avere il coltello dalla parte del manico, non scende mai a compromessi pur di ottenere la migliore situazione economica per se stesso e per il proprio assistito.

Il Milan per tutelarsi cosa avrebbe potuto fare? Stesso quesito vale per la Fiorentina (Vlahovic), il Napoli (Insigne), il Torino (Belotti) e lo stesso Milan (Kessie). Da un lato c’è l’interesse della Società che si sostanzia nel non voler perdere un calciatore senza alcun introito, dall’altro c’è l’interesse del calciatore (e del proprio Agente) nel voler avere il più ampio spazio di manovra per concretizzare e monetizzare le scelte riguardanti il proprio futuro.

Quasi tutti dimenticano che aldilà della maglia e del romanticismo, vi sono alla base degli interessi economici e dei contratti di lavoro subordinato, firmati ovviamente da entrambe le parti, che hanno una scadenza precisa. I patti sono chiari e laddove gli interessi delle parti non trovino un punto d’incontro, non giungano allo scopo di raggiungere un rinnovo riguardante l’onerosità contrattuale, come detto sopra, ognuno è libero di negoziare a proprio piacimento le scelte che riguardano il proprio futuro.

Oggi, queste situazioni scaturiscono spesso da tutta una serie di problematiche relative alla gestione delle società, alla programmazione e al ruolo dei direttori sportivi, questioni per nulla banali che, però, necessitano di essere argomentate ed affrontate in un successivo approfondimento.

Vlahovic: il nove del futuro dal destino incerto

0

All’asta del fantacalcio il momento in cui bisogna acquistare gli attaccanti è quello topico. Ognuno arriva con le idee chiare su quello che dovrà essere il bomber in grado di trascinare la squadra a suon di bonus.

I nomi sono sempre i soliti: Immobile, Ibrahimovic, Osimhen, Dzeko, Dybala, Zapata, Lautaro. Sono loro, solitamente, gli acquisti più onerosi dei fantallenatori.

Quest’anno però, molti avranno sicuramente speso buona parte del proprio budget per un ragazzo che come loro è appassionato di fantacalcio. Trattasi di Dusan Vlahovic, e se diciamo che è il 9 più forte della Serie A, forse non stiamo esagerando.

Arriva dai balcani, come tanti dei talenti passati per il nostro campionato, precisamente dalla Serbia, da Belgrado. Fin da piccolo grande tifoso del Partizan, per il quale rifiuta la chiamata della Stella Rossa all’età di quattordici anni per seguire il proprio cuore. Due anni dopo diventa il più giovane esordiente della storia dei bianconeri di Serbia.

Le sue precoci prestazioni non possono passare inosservate. E su di lui, il più lesto ad avventarsi, nell’estate del 2017, è il grande scovatore di talenti Pantaleo Corvino. Il direttore sportivo, che lo acquista insieme a Milenkovic, parla di lui come di un talento folgorante. Un ragazzo, oltre che enormemente dotato tecnicamente e fisicamente, con una grande personalità e sfrontato. Di questo ce ne fornisce una testimonianza Valerj Bojinov. L’attaccante bulgaro, che ha giocato insieme a Dusan al Partizan, ci racconta di un giocatore matto, ma con una smisurata fiducia nei propri mezzi, a tal punto da definirsi il nuovo Ibrahimovic di Belgrado. Tutto questo a soli sedici anni. D’altronde il suo nome, in serbo, deriva proprio da anima, spirito, non potrebbe essere altrimenti.

Nel gennaio del 2018, quando il suo contratto con la Fiorentina diventa ufficiale al compimento dei diciotto anni, sbarca in Toscana, patria ideale per uno che come lui ama la bistecca. A Firenze va a rimpolpare l’elenco di giocatori usciti dalla fucina del Partizan, società tra le migliori in Europa nello sviluppo del settore giovanile, e passati per il capoluogo fiorentino. Prima di lui infatti, a percorrere la stessa tratta sono stati centrali del calibro di Nastasic e Savic, ma soprattutto uno dei suoi idoli d’infanzia, Jovetic.

Arriva con l’obiettivo di fare la spola tra Primavera e prima squadra, ma sotto la guida di Pioli, data anche la giovanissima età, fatica a ritagliarsi spazio. Scende quindi di categoria, andando a fare le fortune dei suoi coetanei. La Viola arriva quinta in campionato, uscendo alle finals contro il Torino, ma si prende la rivincita sui Granata in Coppa Italia. E indovinate chi decide la doppia sfida in finale? Esatto, proprio Vlahovic, con una doppietta all’andata al Franchi, e un cucchiaio dal dischetto al ritorno. Concluderà la stagione con 19 reti in 19 presenze tra campionato e Coppa Italia Primavera. Numeri da grande.

Statistiche che segnano inevitabilmente la fine della sua carriera a livello giovanile e l’affaccio sul mondo della Serie A.

La stagione 2019/2020 è quella che possiamo definire la prima nel nostro massimo campionato. Inizia sotto la guida di Montella, e trova fin da subito un buon minutaggio. Decide da subentrato con una doppietta un turno preliminare di Coppa Italia, contro il Monza. Da lì il vuoto. Il talento serbo, esclusa la doppietta nell’infausta trasferta di Cagliari, vive un periodo difficile, e rischia di perdere il posto da titolare che si stava guadagnando, a scapito di Cutrone e Kouamé. Questa fase complicata termina però in una fredda domenica sera di dicembre.

La Fiorentina, reduce da quattro sconfitte consecutive, ospita l’Inter in piena corsa per il titolo. L’andamento della partita sembra già delineato dopo il più classico dei goal dell’ex di Borja Valero, ma dalla panchina si alza proprio il serbo. Vlahovic entra al posto di Chiesa e ci mette poco più di mezz’ora a pareggiare i conti, al 92º. Esultanza rabbiosa, quasi stizzita, sotto la Fiesole e stadio che viene giù per un goal bellissimo. Dusan pareggia grazie ad una giocata che è un concentrato di forza, precisione e bellezza.

Questa marcatura è il suo biglietto da visita. Riceve palla poco prima del centrocampo, e dopo un controllo un po’ rugginoso, vola verso la porta avversaria. Non basta l’arrivo di Skriniar, con il quale il serbo regge l’urto, e l’angolo di tiro ridotto. Vlahovic lascia partire un mancino tanto violento quanto preciso, e palla sotto l’incrocio dei pali lontano. Un goal questo che mostra un sunto delle sue più grandi doti.

Non basta però la sua prodezza e il pari con i nerazzurri a salvare la traballante panchina di Montella, che viene esonerato dopo la sonora sconfitta contro la Roma della settimana dopo. Al suo posto subentra Iachini, sotto la guida del quale, il serbo racimola tre goal, tra cui la doppietta alla Sampdoria e lo stupendo goal al San Paolo di Napoli.

La stagione della definitiva consacrazione è quella scorsa però. Dopo una prima fase di stagione complicata, in cui tutta la squadra ha faticato, Vlahovic è letteralmente esploso con l’arrivo in panchina di Prandelli. L’ex CT della Nazionale gli affida le chiavi dell’attacco e lui ripaga la fiducia a suon di grandi prestazioni, ma soprattutto di goal. Diventa implacabile sotto porta e finisce la stagione con ventuno goal segnati. La sensazione che però tutti, non solo a Firenze, hanno avuto al termine della scorsa stagione, è stata quella di trovarsi di fronte ad un autentico fenomeno, e non ad un exploit estemporaneo.

Vlahovic la scorsa annata ha segnato in tutti i modi e con grande costanza. Nel 2021 ha viaggiato sulla stessa media realizzativa dei due più grandi esponenti della generazione Z a livello calcistico, Haaland e Mbappé. Tra l’altro, inevitabilmente, è stato anche premiato come miglior under 23 della scorsa Serie A. E anche questa stagione ha cominciato alla grande, con quattro goal e un assist nelle prime sette di campionato. Questo dimostra anche come il sistema di gioco della squadra non influisca sull’alto livello delle sue prestazioni. Non tutti gli attaccanti riescono a passare così facilmente dal giocare con un’altra punta a supporto al giocare con due esterni a fianco.

Un aspetto sul quale, paradossalmente, deve crescere è quello del colpo di testa. Segna troppo poco in questo modo e ingaggia pochi duelli aerei, e di questi ne vince un numero esiguo rispetto a quelle che sono le sue potenzialità, data anche la stazza. Anche l’uso del piede destro, sul quale fa poco affidamento, risulta difettoso, e lo porta a forzare giocate, spesso molto difficili, col sinistro.

Dovesse riuscire a lavorare su questi aspetti, ci troveremmo davanti ad uno dei centravanti più completi del panorama europeo.

Se prima arrancava anche nel gioco spalle alla porta, ormai è tra i migliori della Serie A anche in questo. Vlahovic è anche molto intelligente tatticamente. Comprende quando è il momento di abbassarsi per dare una mano alla manovra, e allo stesso tempo ha ottimi tempi di inserimento. Si lancia quasi sempre negli half spaces, la zona tra la fascia centrale del campo e quella laterale, attirando a sé avversari e liberando spazio per l’inserimento dei compagni. Un aspetto questo fondamentale nel gioco di Italiano, che sfrutta molto le incursioni delle mezzeali.

Abilissimo a controllare palloni di qualsiasi difficoltà, a proteggerli dall’avversario e a far salire la squadra. Se poi decide di girarsi, diventa indomabile. In progressione, grazie al suo fisico statuario sul quale lavora anche da solo a casa, diventa molto difficile da fermare e gli avversari che lo vanno a contrastare sembrano rimbalzargli addosso. Spesso però, come un cavallo con il paraocchi, non guarda da nessun’altra parte e si intestardisce a voler tentare a tutti i costi la giocata, ignorando il supporto dei compagni. Certo però, è che quando gli riesce può essere letale per la retroguardia avversaria, data la grande tecnica, ha la possibilità di optare per qualsiasi soluzione offensiva. Non vanno poi dimenticate le sue doti balistiche, infatti è anche un grande tiratore dalla distanza, vedi terzo goal al Benevento lo scorso anno.

Negli ultimi giorni però, più che far parlare di sé per giocate dentro al campo, lo sta facendo per bisticci fuori. Commisso ha dichiarato che il centravanti ha rifiutato la proposta di rinnovo che lo avrebbe reso il più ricco della storia Viola. Un fulmine a ciel sereno, che fa cadere ai tifosi fiorentini un mito che si stava creando di domenica in domenica, e divide i tifosi tra chi lo farebbe continuare a giocare e chi lo manderebbe in tribuna fino alla cessione. Tutti si dicevano fiduciosi sulla sua firma. Una fiducia dovuta anche a sue dichiarazioni riguardo all’amore per Firenze e alla bellezza della città. Nella speranza che al rientro dalla nazionale possa rompere con il suo storico procuratore Ristic e riprendere le trattative per il rinnovo, a gongolare ci sono i top club europei.

Oggettivamente a chi, anche tra le più grandi, non farebbe comodo il serbo? Alla Juve diventerebbe il leader offensivo del presente e del futuro, giocando in coppia con Dybala. Anche al Milan farebbe più che comodo, dove potrebbe apprendere l’arte del mestiere da due docenti come Giroud e Ibrahimovic. Nell’Inter potrebbe prendere il posto dell’ormai trentacinquenne Dzeko e formare un tandem favoloso con Lautaro. Spostandoci all’estero, il BVB ci aveva pensato in estate in caso di partenza di Haaland, così come il Tottenham, alle prese con la grana Kane. Anche se sarebbe intrigante vederlo in mezzo tra Salah e Mané nel Merseyside. In estate era stato dato vicinissimo all’Atletico Madrid, dove ad adesso andrebbe a completare un reparto stellare con Suarez, Griezmann e Joao Felix. Lo stesso Guardiola aveva mostrato gradimento nei suoi confronti.

Vlahovic in questo momento è di fronte alla più importante sliding door della sua carriera. L’unica certezza è quella riguardante le sue qualità. Dusan è uno dei centravanti più promettenti e forti del panorama europeo, e ovunque continuerà a scrivere la propria storia lo farà grandiosamente.

Azionariato popolare: il calcio finalmente nelle mani dei tifosi.

0

Il biennio 2020-2021 è stato segnato dalla pandemia di Coronavirus, che ha fermato le nostre vite e lo sport per un anno. E in questo lasso di tempo complicato per le imprese, molte società hanno rischiato il fallimento. Alcune sono tutt’ora sull’orlo della miseria, altre hanno aumentato i loro debiti, mentre poche altre invece riescono a navigare in un mare sereno.
Il 2021 lo ricorderemo anche per l’idea della Super League. Un campionato elitario che avrebbe aiutato le più grandi società calcistiche europee a risanare i propri debiti e ad arricchirsi nuovamente. A discapito però della meritocrazia, elemento basico del calcio, e soprattutto a sfavore della passione e dell’amore che contraddistinguono questo sport.
Tra i 12 club fondatori troviamo le tre grandi italiane del nord: Inter, Milan e Juve ; insieme a Manchester United, Manchester City, Chelsea, Tottenham, Arsenal e Liverpool. Più le spagnole, Atletico Madrid, Barcellona, e Real Madrid.

All’appello delle più grandi d’Europa mancano però due grandi club, peraltro finaliste della Champions 2019-20, PSG e Bayern Monaco.
La prima, assente per volontà dello sceicco Al-Khelaifi.
La seconda, il Bayern Monaco, per un progetto societario solido e costante portato avanti per anni.
Non stupisce infatti, che nessuna tedesca sia entrata nella Superlega. Forse le basi di società così quadrate vanno cercate nel passato o meglio in un modello adottato da tutti, o quasi, i club tedeschi. L’azionariato popolare.

Cos’è l’azionariato popolare?

Per azionariato popolare s’intende l’acquisizione da parte di persone, più nello specifico tifosi, di una fetta di società. Quest’ultima passerebbe quindi nelle mani dei tifosi che detengono una quota importante della società.
I supporters della squadra, infatti versando una quota annua, acquistano una minima percentuale della società. Questa, unita al totale degli investitori potrebbe andare a ricoprire una fetta importante di club, come nel caso del Bayern Monaco.
Nel caso dei bavaresi, la società è in mano ai tifosi per il 73%, e ai 3 Corn Investors, detti “le tre A”, per il restante. Allianz per il 9%, Adidas per il 9% e allo stesso modo all’Audi per il 9%.

Pertanto i tifosi che acquistano una quota della società, diventeranno soci del club e avranno diritti decisionali all’interno di esso. Indubbiamente non si parla di questioni riguardanti il mercato della squadra, o decisioni più personali della dirigenza. Si concentra piuttosto su decisioni di carattere generale come per esempio il rifacimento di una parte di stadio o i colori di una tribuna.

Il tifoso in questo modo non viene visto più come un cliente, che paga per vedere la sua squadra del cuore. Veste, invece, direttamente in prima persona i panni dirigenziali della società a cui è legato. Difatti l’azionariato popolare, molto diffuso in Germania, è una scelta anche di tradizione e di storia. Il tifoso non tradirà e criticherà mai la proprietà, una volta dentro; anzi cercherà una migliore soluzione al problema per apportare sempre più migliorie alla sua squadra del cuore.

Il più importante esempio di azionariato popolare, lo troviamo in Germania dove grazie alla regola 50+1%, si è sviluppato questo nuovo modello. Quest’ultima legge impone che i tifosi debbano detenere la quota di maggioranza in ogni singolo club.
Ciò infatti avviene in quasi tutte le società della massima serie tedesca, la Bundesliga, ad esclusione di alcuni club.
Nel 2011, pertanto venne fatta un’altra legge secondo cui gli sponsor che fanno parte di un club da ormai 20 anni, hanno la possibilità, di comune accordo con i soci, di assumere la proprietà.
Alcuni esempi sono il Bayer Leverkusen, in cui la famosa azienda farmaceutica possiede ormai la maggioranza della proprietà. E il caso anche del Wolfsburg, posseduto dall’azienda automobilistica Volkswagen.

Ma dove nasce questo nuovo modello che potrebbe rivoluzionare il calcio moderno in crisi economica?

Come detto in precedenza la casa di questo progetto è la Germania, più precisamente la cittadina portuale di Amburgo, nel nord ovest della Germania.
Qui oltre alla prima squadra della città, l’Amburgo, c’è un’altra realtà, miglior esempio al mondo di azionariato popolare: l’FC St. Pauli.

La realtà del St. Pauli, è una realtà nuova e maturata con il progetto di mettere il tifoso al centro del club. Come socio che agisce non solo per il bene della sua squadra del cuore, ma anche della proprietà su cui ha investito dei soldi.
La quota di proprietà dei tifosi è del 60% ed è in continua crescita, vista la propaganda usata per far diventare il calcio e lo stadio, non solo un sport e una struttura, ma uno spettacolo e un villaggio da vivere; per far avvicinare più gente possibile al calcio e alla squadra del quartiere portuale.

L’acquisto di quote da parte dei tifosi fa sì che si diventi soci del club, e questo ha delle conseguenze all’interno dell’amministrazione.
I soci del St.Pauli pagando la quota entreranno quindi a far parte di una vera e propria famiglia con lo scopo unico e comune, che è il bene del club.

Il totale della quota dei tifosi non sarà solamente investito in attività calcistiche per la società, ma andrà a coprire anche altre branche. Infatti l’amministrazione dei tifosi pensa anche a costruire una gioventù sana nel quartiere dello stadio. Aspiranti giocatori, e futuri azionisti del club; uno scenario aperto a tutti, senza esclusioni di nessun tipo. Gli introiti provenienti dai soci passivi, ovvero coloro che non frequentano i circoli sportivi e non usufruiscono delle attività, sono destinati a migliorare i campi del settore giovanile, e sono anche investiti per attività che riguardano i giovani del quartiere.
Non a caso negli ultimi anni le squadre tedesche stanno godendo di un ampio e solido settore giovanile.

Concretamente però che diritti hanno i soci del St. Pauli? Quali sono le attività che possono svolgere all’interno dello stadio e delle strutture del club?

Per prima cosa, la figura del tifoso essendo vista come parte principale della società, sarà soddisfatta di richieste, e saranno prese in considerazione dalla dirigenza eventuali proposte.
Esempio lampante ne è la Curva sud, del Millerntor Stadion, ovvero il cuore del tifo del St. Pauli.
Tanto è vero che la società sotto espressa richiesta dei tifosi ha costruito un piccolo ufficio, centro di coordinamento, all’interno della curva del tifo; dove l’amministrazione di tifosi si riunisce per prendere decisioni e discutere di eventuali problemi.
Per di più nella parte bassa della curva è stata creata una standing area, sotto desiderio dei supporters, perché ritengono di tifare meglio la squadra stando in piedi.

Inoltre sono riservate nella parte alta dello stadio e nella tribuna d’onore delle zone “Vip”. Ovvero delle stanze, detti separè, riservati ai tifosi soci che hanno la volontà e la disponibilità economica di acquistarne uno.
Questi ultimi sono adornati e personalizzati secondo il proprio stile. I tifosi in questo modo sono trattati come dei veri Vip, solo essendo soci del club.

Inoltre l’amministrazione è la prima che è riuscita ad inserire un asilo nido proprio, all’interno dello stadio. Tra la curva e la tribuna d’onore, per tutti i bambini del quartiere, aperto anche durante le partite. Per creare quel legame con la gente e con le nuove generazioni.
Altro progetto messo in atto dal Fallanden, centro di coordinamneto dei tifosi, è quello del calcio di strada: che consiste nel seguire le persone che non possono permettersi di essere soci. Gli forniscono capi sportivi e li conducono al campo di gioco. Un modo per unire tutte le persone di qualsiasi età e ceto sociale.

Il Fallanden del St. Pauli organizza anche le trasferte, in cui ad essere coinvolti sono pure gli U16, che godono di un pullman privato, controllato da alcuni membri dell’amministrazione.

La tifoseria del St. Pauli, è tra le più calde di Germania e da sempre riconosciuta per gli ideali politici di sinistra.
Il loro covo si trova tra le strade del quartiere più malfamato della città di Amburgo. Le idee dei tifosi prendono vita nel distretto di Reeperbahn, dove c’è un alto tasso di delinquenza, giri di prostitute e droga.
“Antisistema dal 1910”, così intona il motto della tifoseria “Not established since 1910”. Li contraddistingue l’odio profondo verso il business e l’establishment, seguendo così una linea tradizionale.
Perciò all’interno della grande famiglia dei “bucanieri”, soprannome della tifoseria ispirato allo scheletro sulla bandiera, non poteva mancare un proprio brand e un gestore del merchandising addentrato nella tifoseria. Questo è un grande vantaggio per la società che riesce quindi ad avere capi di abbigliamento per i tifosi in linea con la storia del club.

L’azionariato popolare è il modo di agire e di crescere delle società di Amburgo: l’FC St. Pauli e l’Amburgo SV. Ma in generale di tutto il calcio tedesco e dei nuovi modelli introdotti in Spagna, dal Barcellona e da altre realtà.

In Italia in seguito alla crisi del Covid-19, il noto economista Carlo Cottarelli, grande tifoso interista ha proposto il progetto di Interspac.
Una società di 16 soci, che si rifà all’azionariato popolare. Venne già lanciata due anni e mezzo fa quando c’era stato il passaggio di consegna da Thohir a Suning. Ma la proposta fu accantonata. Ad oggi in seguito all’emergenza finanziaria che sta vivendo l’Inter, il presidente Cottarelli ha avanzato la proposta di Interspac, affiancato anche dall’appoggio di numerosi personaggi famosi come Amadeus, Bocelli e Bergomi.

La prima metà di luglio di quest’estate, è stato lanciato un sondaggio sulla fattibilità di un progetto tale in Italia, e i risultati hanno aperto a una possibile introduzione di questo nuovo modello nel calcio italiano.
Ma l’idea di Interspac potrebbe essere attuato, in questo caso a Milano, solo con l’accordo dell’attuale proprietà cinese.
Carlo Cottarelli ha affermato in diverse interviste che la quota per acquistare una piccola parte di azioni può andare dai 500 ai 1000 euro. Un spesa non irrilevante, e forse poco popolare.

La strada è ancora molto lunga, ma l’idea che un tifoso possa non essere più un semplice fruitore del calcio, ma protagonista a tutti gli effetti, è qualcosa di straordinario. C’è la possibilità di rivoluzionare le sorti del calcio e delle società che nel tempo potrebbero perdere lustro a causa della crisi post-covid.

Cosa ci ha lasciato il Derby della Capitale?

0

Si è giocato ieri il 193° Derby della Capitale, che ha visto la Lazio di Maurizio Sarri imporsi per 3-2 sui giallorossi.
Una partita vera, viva, che ha sicuramente divertito i tifosi neutrali, vinta con merito dai biancocelesti, apparsi più avanti rispetto alla Roma.
La Serie A è ormai un campionato privo di stelle, ma che si sta comunque rilanciando a livello di appeal.
Sono tanti gli spunti che ci lascia questo Lazio-Roma, ma analizziamoli uno per uno.

1. Guai alle sentenze affrettate

Ne abbiamo sentite tante, tantissime, fino ad oggi. Chi parlava di Roma da potenziale scudetto, subito smentito da Mourinho che ricordava come per una squadra arrivata a 29 punti dall’Inter non sarebbe pensabile colmare il gap in 6 giornate. Chi parlava di inizio zoppicante per Maurizio Sarri, forse dimenticandosi che nella prima stagione sulla panchina del Napoli dopo cinque giornate aveva collezionato solamente 6 punti. Poi la storia del Sarrismo la conosciamo tutti..

2. Il percorso

Le Romane hanno cominciato un nuovo percorso, che necessariamente avrà bisogno di tempo. Riguardando la partita di ieri si inizia a notare la mano dei due tecnici, ma permetteteci di dire che se sulle panchine ci fossero stati ancora Inzaghi e Fonseca non sarebbe cambiato troppo. Nel primo vero incontro di nervi della stagione, le squadre hanno inconsciamente tirato fuori le vecchie abitudini. Gli inserimenti di Milinkovic, le verticalizzazioni continue di Luis Alberto, gli strappi isolati di Zaniolo, le amnesie difensive giallorosse ecc.
C’è bisogno di tempo per sapere cosa sarà la Lazio e cosa sarà la Roma, quindi torniamo al punto 1: guai alle sentenze affrettate.

3. La Lazio

Partiamo dai biancocelesti, la squadra che si è aggiudicata il Derby. Come detto la mano di Maurizio Sarri si è iniziata a vedere: tanti scambi, tante triangolazioni, anche esasperando il possesso (due errori clamorosi di Milinkovic e Reina). Il gioco di Maurizio lo conosciamo tutti, è uno degli allenatori tatticamente più preparati al mondo, per questo motivo non si può pretendere tutto e subito. Ha trovato una squadra con un altro sistema di gioco, ma con principi ben consolidati soprattutto dal centrocampo in su. Con il tempo saprà farla sua, soprattutto limitandone i problemi difensivi, sempre attraverso il possesso palla. E lì saranno problemi per quasi tutte.

Maurizio Sarri festeggia la vittoria nel Derby

4. La Roma

Inutile negare che la Roma abbia bisogno di molto più tempo rispetto ai concittadini. Il livello della rosa è probabilmente superiore, ma i biancocelesti vengono da ottimi anni targati Inzaghi, con principi calcistici ben precisi e chiari, mentre i giallorossi sono da anni allo sbando. Normalizzare il tutto quindi necessita di tempo e soprattutto lavoro. Non a caso Mourinho per tutto il precampionato ha lavorato quasi esclusivamente sulla fase difensiva, affidandosi alle qualità dei singoli. I risultati di inizio stagione sono arrivati per l’entusiasmo e per un Pellegrini formato Champions, poi sono tornati i vecchi problemi. Vina a livello tattico e di lucidità è ancora settato sul Brasile e non sulla Serie A, i centrali soffrono tutte le imbucate, il gioco offensivo è ancorato a lanci lunghi e qualche iniziativa personale. Al momento la Roma lavora sul costruire la propria identità (quasi zero turnover nei primi 6 turni), una volta trovata si potrà capire quale sarà il livello. Mourinho lo sa bene, e per questo motivo in conferenza catalizza tutta l’attenzione lontana dalla Squadra.

Tutta la Roma a rapporto dopo la sconfitta

5. Arbitri, è il momento di cambiare tutto

Ecco la vera nota negativa del Derby, ancor peggio della difesa romanista: gli arbitri. E non intendiamo coloro che fisicamente hanno diretto la partita, ma l’intero sistema italiano. Un rigore netto non fischiato alla Roma (con anche possibile fuorigioco però) da cui nasce il 2-0 della Lazio; un rigore inesistente poi fischiato, forse per compensazione. Quale è la comune? Il mancato check del Var o la mancata correzione.
Si potrebbe pensare che sia casuale, ma non è affatto così. Da quest’anno infatti l’AIA ha introdotto delle multe per gli arbitri che vengono corretti dal Var. Sennonché in sala Var ci sono altri arbitri, probabilmente restii all’idea di irrogare una sanzione ad un proprio collega, quando la settimana successiva potrebbero trovarsi in campo proprio con quel collega nella postazione di controllo.
Un sistema nel quale la tecnologia non è uno strumento di supporto, non è uno strumento di correzione dell’errore umano (più che lecito, soprattutto in partite di nervi come i Derby), ma un mezzo per intimorire e punire gli arbitri che sbagliano, è un sistema allo sbando. Oppure un sistema che vuole mantenere un proprio potere, e così non va.

Che poi basterebbe guardare dagli altri sport: immagini pubbliche o comunicazione tra arbitro e Var diffusa tramite gli altoparlanti ecc. Non si annullerebbero gli errori in uno sport dominato dall’ interpretazione, ma quantomeno ci sarebbe chiarezza. Mentre qui in Italia la chiarezza è l’ultima cosa che si sta ricercando.

La rinascita del calcio a stelle e strisce

0

I mondiali del 2018 in Russia qui in Italia li ricorderemo a lungo. Sono il simbolo del fallimento di un movimento calcistico, il fondo dal quale si è potuto solo risalire.
L’amarezza è venuta ancor di più guardandola la competizione. Ha fatto male a tutti gli italiani vedere il Panama giocare ai mondiali contro Belgio ed Inghilterra mentre i nostri beniamini erano sparsi sulle spiagge del globo a prendere il Sole. Proprio quel Panama, una nazione di 890.000 abitanti, che ha staccato il pass per la Russia eliminando nello spareggio gli USA. Anche gli americani sono stati degli esclusi eccellenti dell’ultima Coppa del Mondo. Sintomo questa non qualificazione, anche per loro, di un’imminente e improrogabile rivoluzione al sistema calcistico.

La nazionale a stelle e strisce, per comprendere la validità dei propri giocatori, ha sempre avuto come metro di misura l’Europa. Il quantitativo di giocatori americani che giocavano nel Vecchio Continente indicava la qualità della rosa a disposizione per le grandi manifestazioni. Più erano gli statunitensi oltreoceano, più la squadra era forte.

Il Mondiale del 2010, con il raggiungimento degli ottavi di finale, avrebbe dovuto segnare l’inizio della scalata alle grandi del calcio europeo e sudamericano. In quella circostanza, su ventitre convocati, solo quattro giocavano in MLS, gli altri tutti in Europa. Purtroppo però da lì in poi, per gli Usa è iniziato un periodo di grosse difficoltà, che è culminato con l’esclusione dall’ultima Coppa del Mondo.


Lo spartito della musica però è cambiato, e i primi risultati cominciano già ad intravedersi. Quest’estate, tra Copa America, Euro2020, e un mercato folle, è passata in secondo piano la Gold Cup. La competizione che mette contro le rappresentative del centro e nord America ha visto la nazionale statunitense trionfare in finale contro il Messico. E cosa ancor più importante, lo ha fatto senza i suoi giocatori più importanti. Perché i vari McKennie, Pulisic e Reyna non hanno preso parte alla manifestazione. E insieme a loro tanti altri ragazzi che giocano in Europa come Adams, Dest, De La Fuente, Mendez, Horvath e Steffen.

Tutti ragazzi questi che, oltre ad avere in comune la giovane età, il più anziano è il venticinquenne Steffen, hanno giocato, chi più e chi meno, l’ultima Champions League. Mai il più importante torneo calcistico per club del mondo aveva visto partecipare così tanti americani. Un dato che testimonia la bontà del lavoro svolto dalla federazione tramite la US Soccer Development Academy. Da qui sono usciti Pulisic, McKennie, Reyna, Adams, Steffen e Richards. Questo programma della federazione è stato iniziato nel 2007 e già sta dando i primi frutti, con la maggior parte dei giocatori sopra elencati che giocano in top club assoluti europei.

La Development Academy coinvolge 113 società, per un totale di quasi 500 squadre, 9.000 giovani calciatori, sia maschi che femmine, dall’under 13 all’under 19. Grazie a questo progetto è stato possibile anche standardizzare i metodi di allenamento e facilitare lo scouting. L’Academy si concentra principalmente su un aspetto fondamentale, quale lo sviluppo tecnico del ragazzo. Con questo progetto i ragazzi possono poi allenarsi di più durante la settimana perché le trasferte da affrontare nel weekend sono meno lunghe.


Questo grazie invece alla creazione di tre conferences regionali che non costringono più i giovani calciatori a viaggiare da una parte all’altra della nazione. In più, ne giovano anche gli allenatori e gli staff tecnici che possono lavorare maggiormente con la squadra, con la conseguenza inevitabile dell’innalzamento del livello delle partite.

Un’altra caratteristica di questa Academy è che, man mano che si sale di categoria, le squadre diminuiscono. Questo consente ai giovani di confrontarsi sempre con quelli più forti e mettersi in luce per ricevere convocazioni in prima squadra.

Un ruolo fondamentale nello sviluppo di questa Academy lo ha senza dubbio avuto l’MLS. La massima divisione americana ha sostentato indirettamente il programma durante la pandemia, prendendone il controllo e ribattezzandola MLS NEXT. Questa acquisizione ha però due scopi principali. Il primo è quello di portare nel calcio professionistico il prima possibile i ragazzi più meritevoli. Il secondo è quello di rivenderli in Europa, in modo da utilizzare i ricavi per crescere nuovi talenti e migliorare i settori giovanili.

Un’idea questa, un modo di agire e di pensare che porterà in breve tempo gli USA dove meritano di stare anche nel calcio, o soccer come lo chiamano loro. La nazionale femminile è da anni la più forte al mondo, quella maschile non vede l’ora di combattere contro le grandi potenze calcistiche attuali.

La sorpresa Brentford e il suo legame con il Midtjylland e la statistica

0

La stagione in Inghilterra è ricominciata alla grande. Il calcio inglese vive probabilmente la sua epoca migliore. Ai nastri di partenza in Premier League si sono presentate in pole position per la vittoria finale dei veri e propri dream team. Dal City di Guardiola e De Bruyne, al Chelsea di Tuchel e Lukaku, senza dimenticare il solito grande Liverpool e lo United, che quest’anno avrà a disposizione, a completare la già ricca gamma di attaccanti, CR7.

In queste prime tre giornate però la squadra che più di tutte ha sorpreso non è stata nessuna di queste. E neanche il Tottenham a punteggio pieno o il West Ham secondo a sette punti. La pìù grande rivelazione di questo avvio di stagione inglese è il Brentford.

Esattamente, una delle tre neopromosse, nonostante una rosa senza grandi nomi, ha accumulato cinque punti e zero sconfitte. E gli avversari affrontati sono assolutamente di tutto rispetto. Anzi, parliamo di big del calcio d’oltremanica quando pensiamo all’Arsenal, sconfitto al primo turno grazie alle reti di Conas e di Norgaard. La settimana dopo è arrivato un punto dalla trasferta in casa del Crystal Palace, nella sfida conclusasi a reti bianche. Mentre il weekend successivo, al Villa Park, alla rete iniziale di bomber Toney, ha risposto quella del definitivo uno a uno di Buendia.

Un inizio ottimo, quello delle bees, date come vittima sacrificale da tutti all’inizio del campionato e capaci di imporsi sin qui senza timore di nessuno.

Il Brentford è tornato a giocare la massima divisione inglese dopo addirittura settantaquattro anni. Un lungo lasso di tempo durante il quale il club ha galleggiato tra terza e quarta divisione per lo più. La storia però è cambiata quando al timone della società è arrivato Matthew Benham. Il presidente è stato da ragazzo un ottimo studente, capace di laurearsi ad Oxford in fisica. Dopo qualche anno in questo settore, capì che in realtà la strada da intraprendere era un’altra. Si gettò dunque nel mondo della finanza, e anche qui raggiunse livelli molto alti, addirittura diventò vicepresidente della Bank of America.

Le sue più grandi passioni però sono sempre state il calcio e il betting, e nel 2001 entrò a lavorare per la Premier Bet, società di scommesse londinese. Dall’infanzia ha sempre portato poi dentro di sé un grande amore verso il Brentford e quando si è palesata l’occasione di acquistarlo non ci ha pensato due volte. Una volta salvata dal fallimento la società, ha deciso di instaurare un modello vincente per riportare la squadra dove mancava da troppi anni.

Assieme a Rasmus Ankersen, business consultant, esperto di public speaking e scrittore acquista anche il Midtjylland nel 2014 e importa la sua filosofia anche lì. Ankersen poi, oltre ad avere grandi doti manageriali, è anche un grande appassionato di data analysis e statistiche, che applica successivamente nel mondo del pallone. Ed è qui che nasce il modello Benham-Ankersen, e che unisce in maniera significativa il Brentford e il Midtjylland.

Un modo di pensare e di agire spesso paragonato a quello usato da Billy Beane, storico manager degli Oakland Athletics. Un metodo talmente apprezzato e sul quale è stato sia scritto un libro che girato un film. Il titolo è Moneyball ed ha fatto sì che tutto ciò venisse conosciuto da tantissime persone.

Per comprendere nel miglior modo possibile il ragionamento fatto da questi due personaggi bisogna entrare nell’ottica che il piazzamento in classifica non è la cosa più importante. Benham e Ankersen puntano a migliorare i risultati dei due team alzando i KPI, key performance indicators. Questi indicatori esaminano e si concentrano su determinati parametri e fattori della prestazione del calciatore. Tra queste la più famosa è quella dei XGoals. Brentford e Midtjylland sono state tra le prime ad utilizzare un qualcosa che adesso è sempre più diffuso nei club di tutta Europa.

L’analisi di questi parametri non incide però solo sul monitoraggio delle prestazioni in campo dei giocatori. Risulta fondamentale anche nell’ambito del calciomercato. Infatti, prima di acquistare un calciatore, il tema di analisti della società studia il ragazzo e lo esamina seguendo questi famosi parametri per capire se possiede le caratteristiche tecnico-tattiche di cui la squadra necessità per migliorarsi. Molto interessante è anche il fatto che questi approfondimenti statistici possono rivelarsi molto utili in alcuni aspetti del gioco. L’esempio lampante di ciò ce lo fornisce il dato dei goal da situazioni di calcio piazzato del Midtjylland a partire dal 2014, anno di acquisizione del club da parte di Benham. I danesi hanno incrementato la loro pericolosità da questo tipo di situazioni addirittura del 400% rispetto alla stagione precedente.

La bontà di questo lavoro è testimoniata soprattutto però dal palmares, arricchitosi in maniera importante negli ultimi sette anni. I Lupi, prima dell’arrivo di Benham, non avevano mai vinto il campionato danese, adesso vantano addirittura tre Superligaen in bacheca.

La validità dell’operato sin qui svolto è tangibile anche oltremanica. In terra d’Albione, il Brentford, prima dell’avvento del presidente-tifoso, bazzicava nelle leghe minori. Per la precisione, all’arrivo di Benham, giocava in League Two, quarta divisione inglese. Nel giro di poche stagioni è tornata in Premier League, dopo un’assenza che si protraeva dal 1947. Il ritorno sul più grande palcoscenico del calcio inglese è stato possibile grazie a quel modo di agire basato sullo studio di statistiche e analisi di parametri e fattori di ogni giocatore in qualsiasi partita. Anche però grazie alla costruzione di un modello di business vincente ma soprattutto sostenibile, cosa assolutamente non scontata al giorno d’oggi.

Il patron ha investito più di 100 milioni tra rinnovamento di tutte le strutture societarie, mercato e staff. Ha costruito un nuovo stadio, il moderno Brentford Community Stadium, che prenderà il posto di Griffin Park, storico impianto famoso soprattutto per avere un pub ad ognuno dei quattro angoli. Di grande importanza è stato anche il lavoro di osservatori e scout, capaci di scovare giovani talenti dalle serie minori, rivelatisi poi ottimi giocatori che hanno contribuito alla scalata verso la Premier.

A proposito di giovani, chi meglio di Frank, ex allenatore delle giovanili della Danimarca, per gestire al meglio questi ultimi. Scelto da Ankersen, che lo ha messo per due anni a lavorare da vice di un tecnico navigato come Dean Smith. Parliamo di un tecnico della scuola nordeuropea, seguace di Klopp, amante del calcio in verticale. La sua squadra va alla costante ricerca di spazi fra le linee avversarie per favorire rapidamente la risalita del campo.

La stagione è ancora molto lunga, è difficile dire se il Brentford potrà salvarsi tranquillamente o addirittura sperare in qualcosa di più. Chissà se invece il Midtjylland riuscirà a vincere il quarto campionato della sua storia, e perché no, rincorrere un sogno europeo.

Una cosa è certa le premesse per stupire ci sono tutte.

Il calcio popolare e la risposta dal basso

Quante volte lo abbiamo sentito dire o quante volte lo abbiamo pensato: il calcio è di tutti, il calcio è della gente. Beh, bello da dire, sicuramente. Poi magari vediamo. Perché per quanto i tifosi si sforzino di guardare alla realtà del calcio moderno come un’entità ancora mossa dai sentimenti dei supporters, il movimento calcistico mondiale si sta evolvendo sempre di più in un business distaccato dalle volontà e dai bisogni dei tifosi classici, per andare verso i più occasionali, quelli affamati di entertainment e pronti a spendere in abbonamenti saltuari a pay-tv. Eppure, negli ultimi anni, qualcuno sta provando a dare una risposta “dal basso”. Ed è esattamente di questo che dovremmo parlare quando nominiamo il calcio popolare.

Il calcio è popolare per sua definizione. Non può essere altrimenti. Ma con il termine calcio popolare, oggigiorno, si intende un modo diverso di concepire, creare e gestire una società calcistica. Di fatto, questo “movimento” è, almeno in Italia, ancora legato al dilettantismo dal quale nasce, ma negli ultimi tempi le prime società nate da questo fenomeno stanno incominciando a fare dei grandi passi in avanti in termini di risultati e seguito. Ma andiamo per ordine: cosa rende popolare una società di calcio?

Recentemente, dopo i problemi societari evidenziati nel post pandemia e la fine di un ciclo ancora da cominciare (ve ne abbiamo parlato qui), alcuni tifosi benestanti dell’Inter hanno deciso di avviare dei sondaggi per un eventuale azionariato popolare al controllo societario della Beneamata. Bene, per quanto romantico e apprezzabile, non è questo che viene inteso per calcio popolare. Le società fondate sotto quell’etichetta, per quanto sia sempre limitante parlare di etichette, nascono da una volontà comune di un gruppo di persone. Volontà che rimane l’unica vera proprietaria del tutto. La gestione societaria è simile a quella di una comune, così come la gestione della comunicazione, oggi sempre più centrale.

Gestire una squadra popolare significa anche rimanere legati al territorio. Organizzare feste e sagre fa parte della vita societaria. I giocatori e i tifosi rimangono legati da esperienze comuni al di fuori del rettangolo di gioco. Sugli spalti, invece, il tifo non ha paura delle curve più organizzate. Purtroppo, spesso è accaduto che qualche male intenzionato provasse a pagare questi tifosi per andare a supportare la propria squadra, ricevendo però solo insulti.

In Inghilterra, l’esempio più eclatante è lo United FC. Terza squadra di Manchester, l’FC è stato fondato da tifosi scontenti della gestione societaria dei Glazers, proprietari del Manchester United. Dalla fondazione negli anni 2000, questi tifosi sono riusciti a portare la squadra in settima serie e a costruire uno stadio di proprietà. Il tutto in autogestione.

In Italia, invece, negli ultimi tempi si fa un gran parlare del Centro Storico Lebowski. Da Firenze, con campagne di autofinanziamento, la squadra è riuscita ad arrivare fino al campionato di Promozione Toscana. Ma, soprattutto, nell’estate del 2021, è riuscita a portare in grigionero niente di meno che Borja Valero. La notizia ha da subito scatenato il tam-tam mediatico ridondante tipico dell’era social. Pagine e testate riprendevano la notizia giocando e scherzando sul romanticismo legato alla decisione del Professore ex Inter e Fiorentina, senza comprenderne le motivazioni. Senza scavare a fondo.

Il calcio popolare, dicevamo, è una risposta dal basso al calcio moderno. Un calcio che si sta staccando dai tifosi e dai territori. Ma anche dalla società in cui è radicato. Un calcio che non permette un’espressione di pensiero che non sia legato al campo. Un calcio distante dalla realtà, un’isola felice immaginaria. E a qualcuno piace così. Evidentemente non a Borja Valero. Il calcio popolare è una presa di posizione, anche politica. Calcio popolare significa andare controcorrente. Sagre, feste di paese e autofinanziamenti, ma anche manifestazioni, attivismo politico e attualità. Nelle tribune delle partite non ci sarà spazio solo per cori semplici e già usati. Anzi, la tribuna diventerà uno spazio di confronto aperto, un luogo dove entrare a contatto con varie realtà del giorno d’oggi, mentre ci si gode dello spettacolo del calcio giocato, quello vero. Quello della passione.

Per parlare di calcio popolare probabilmente non basterebbe un libro. Per questo è veramente sbagliato affrontare con semplcità e sintesi l’episodio di Borja Valero al Lebowski. Si è raccontato di una lettera scritta dai ragazzi e ragazze che compongono la società, diretta al Professore che già aveva conosciuto la realtà dei dintorni di Firenze. Una narrativa che vuole limitare la scelta dell’iberico a un qualcosa di piccolo. Una decisione impulsiva per giocare tranquillo le ultime partite della carriera. Ma non può e non deve essere così. Borja Valero è una risposta dal basso che arriva dall’alto. La riprova della necessità di curare il calcio e renderlo di nuovo di tutti. Ma per davvero.

La storia del Trastevere Calcio

0

Trastevere

Partiamo dal principio:

Al tempo della fondazione di Roma la zona di Trastevere era una terra ostile che apparteneva agli Etruschi di Veio (litus tuscus o ripa veiens), contesa con la neonata città in quanto strategica per il controllo del fiume.

Ok, non così tanto prima.

Trastevere è il tredicesimo rione di Roma, il più esteso. Chi di voi non è stato a Roma difficilmente può immaginare Trastevere. Il rione nella parte più antica è un intreccio di vicoli punteggiati da numerose piccole piazze, vicoli stretti e opere d’arte. Sì, perché Trastevere conta 37 chiese, 12 palazzi e ville signorili, 3 basiliche, 2 monasteri e 1 oratorio. Ma anche una serie di piazze, fontane, musei, mausolei e monumenti di ogni epoca. Infine, uno stadio.

Sì, in un rione così pieno di storia, nel cuore di Roma, è difficile pensare ci possa essere uno stadio. Lì vicino, nel quartiere di Monteverde Vecchio.

Il Trastevere Stadium (di proprietà) ospita le partite del Trastevere Calcio, la squadra del Rione se non si fosse capito. Una realtà simile a quella inglese, a quella di Londra, a quella della City. Il Trastevere Calcio nasce nel 1909 (già prima della Roma, ma è un’altra storia), scampando alle fusioni sotto il regime fascista, non militando nella massima serie. Dopo i conflitti mondiali la società non avrà molto successo, riuscendo ad arrivare in Serie B una sola volta per poi precipitare in C e perdersi più volte. Subisce due rifondazioni, la prima nel 1968 e la seconda nel 2012.

La più recente rifondazione vede a capo della società Pier Luigi Betturi, imprenditore romano di origini amatriciane che è stato capace di riportare in alto i colori amaranto. Ricordiamo con piacere anche il tecnico Sergio Pirozzi, nonché Sindaco di Amatrice, che lasciò l’incarico dopo il sisma del 2016 per occuparsi della “sua gente”. Quest’anno sarà di nuovo in panchina.

Unicum

Il Trastevere Calcio è una realtà unica, nessun’altra società può contare la sua storia e le sue radici in un quartiere così iconico. Conosciuto non solo in Italia ma nel mondo. Proprio per questo motivo il negozio societario non poteva essere che nel cuore di Trastevere, in Via della Lungaretta, 98. In attesa del secondo negozio ufficiale. Così si vocifera.

Sì, perché quello che il Patron ha realizzato prima di tutto è stato un rinnovamento del brand. Siamo nel XXI secolo, è essenziale sapersi vendere, sapersi raccontare, e se alle spalle hai una storia simile è un obbligo morale. E’ stato realizzato il bar, un ristorante, lo store nel cuore del rione. Gli sponsor sono realtà romane (e non solo), conosciute anche dai turisti. Impossibile non citare l’importante collaborazione con la comunità di Sant’Egidio.

Un unicum lo è anche l’iscrizione di un campione vivente romano, alla società trasteverina. L’ex capitano della Roma, Francesco Totti, nato e cresciuto a Porta Metronia, noto quartiere romano, nella stagione 1985/86 era un giocatore della SMIT Trastevere. Tessera n°097264. Insomma, l’odierno Trastevere Calcio.

Trastevere Stadium

Se la pandemia ha tolto molto al calcio, in particolare a realtà dilettantistiche, lo stadio a Roma è un’argomento ostico, in grado di togliere energie, soldi e pazienza. Se pensavate che solamente le più blasonate Roma e Lazio fossero alla ricerca di un impianto di proprietà vi sbagliavate.

Nonostante il Trastevere Stadium sia situato all’interno di una cornice di eccezione, Villa Doria Pamphilj, è impossibile ampliarlo. Ad oggi possono sedere 1213 spettatori, inadatto agli standard della Serie C. Un problema irrisolvibile visti i vincoli del parco. Il problema è che la città di Roma, escluso l’Olimpico (ovviamente troppo costoso, come più volte ribadito dal Presidente), non ha altri impianti omologati. L’ipotesi è spostarsi fuori i perimetri comunali di Roma, ma sarebbe una perdita enorme per Roma e i romani.

Insomma, il calcio a Roma è una tradizione, oserei dire una religione. Peccato per la sua poca valorizzazione, nonostante sia amato e seguito da quasi la totalità degli italiani. Ci auguriamo che realtà come il Trastevere Calcio possano trovare la loro strada, speriamo che il Comune (che si avvicina alle elezioni 2021) possa risolvere la questione “stadio”. Perché a Roma non c’è solo la Roma o la Lazio, ci sono molte altre realtà. Ad maiora Trastevere Calcio!