Il calcio alle Olimpiadi, un amore mai sbocciato

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La trentaduesima edizione dei giochi olimpici estivi dell’era moderna si è conclusa. La sacra fiamma di Olimpia si è spenta nella notte di Tokyo lo scorso 8 agosto chiudendo la spedizione azzurra con più medaglie nella storia di questa manifestazione: 40 (10 ori, 10 argenti e 20 bronzi). Jacobs e l’atletica ci hanno fatto sognare ed commuovere, quasi facendoci scordare l’europeo vinto solo un mese fa. Eh già, ma il calcio alle Olimpiadi? Perchè lo sport più praticato al mondo non è mai andato d’accordo con la manifestazione più importante e sognata del globo? Perchè le Olimpiadi non sono mai state teatro delle giocate dei più grandi calciatori di sempre?

Non c’è una risposta sola a queste domande. In realtà la scintilla tra calcio e giochi olimpici non è mai scattata. Il CIO ha faticato nel 1912, in occasione dei giochi di Stoccolma, ad ammettere per la quarta volta il pallone nel programma a 5 cerchi. L’anima dilettantistica che le Olimpiadi hanno sempre scelto di rappresentare non calzava con il professionismo, già padrone del mondo del football. Il calcio non è mai stato considerato abbastanza puro da poter competere all’ombra del fuoco olimpico. Per questo le delegazioni hanno sempre, o quasi, mandato nazionali “B”, composte da giovani o dilettanti, a rappresentarle.

Il dilettantismo ha fatto sì che nel dopoguerra a dominare il calcio alle Olimpiadi fossero le nazioni del blocco comunista, di fatto creando una spaccatura tra gli albi d’oro. Perchè, in effetti, l’idea geniale di Rimet, data alla luce nel 1930, non ha aiutato lo sbocciare delle rose. I mondiali di calcio sono diventati la vetrina perfetta per esibire i talenti, mentre le Olimpiadi sono mano a mano diventate un peso da gestire per i vari club del panorama, preoccupati per il calendario dei giochi e dai possibili infortuni.

Eppure, mettendo da parte tutto questo, c’è ancora chi sul proprio petto fa vanto di vittorie nel torneo olimpico. Stiamo parlando della nazionale uruguayana. Se ci fate caso, lo stemma della federazione celeste conta 4 stelle. Due in più rispetto alle edizioni dei mondiali vinte nel 1930 e nel 1950. In effetti, nel 1924, a Parigi, e nel 1928, ad Amsterdam, fu la Fifa ad organizzare il torneo olimpico di calcio e non il Cio. Per questo la federazione internazionale riconosce quelle due edizioni come dei mondiali “dilettantistici” a tutti gli effetti ed è per questo che l’Uruguay rimane l’unica nazione autorizzata a fare vanto di tali vittorie.

Per quanto riguarda gli azzurri, l’unica volta che i cinque cerchi del pallone hanno visto l’Italia trionfare risale al 1936, a Berlino. Vittorio Pozzo dominava il mondo infilando nel bel mezzo di due mondiali la vittoria olimpica, mai più ripetuta. Da lì, solo due medaglie di bronzo. Mentre l’ultima partecipazione risale a Pechino 2008, nonostante l’europeo under-21 del 2019, valevole per la qualificazione, organizzato in casa con talenti che due anni dopo ci avrebbero portato sul tetto dell’Europa dei grandi.

A Tokyo, in ogni caso, è stato il Brasile a portare a casa il metallo più prezioso, per la seconda volta di fila. A farne le spese è stata la Spagna dell’instancabile Pedri. In campo femminile, che non ha mai visto l’Italia protagonista, a trionfare è stato il Canada. Fun fact: il Canada ha già vinto un oro nel calcio, a St. Louis nel 1904, ma con i maschi. Le donne, per trionfare, hanno dovuto attendere il rigore decisivo di Grosso. Sì, Grosso, ma non Fabio: Julia.

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Jorginho e Messi, è battaglia a due per il Pallone d’Oro

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France Football, rivista francese, dal 1956 elegge annualmente il miglior giocatore di tutto il mondo, durante l’anno solare, assegnandogli il Pallone d’Oro.

I requisiti richiesti per l’assegnazione del titolo sono quattro, e servono per inquadrare un giocatore, definito come migliore in assoluto sotto tutti i punti di vista.
Prioritario è l’insieme delle prestazioni del singolo giocatore e della Squadra e Nazionale in cui milita. Poi il valore del giocatore, compreso di talento e fair play; la carriera svolta che lo ha portato a contendersi il titolo e infine la personalità e il carisma.

Dal 2008 al 2019 c’è stata un’egemonia totale sul premio di migliore giocatore del mondo. Premiazioni abbastanza indiscusse per Messi, sei volte, e Ronaldo, cinque. Solo nel 2018, Luka Modric ha interrotto il dominio alieno.

Negli ultimi anni l’assegnazione del Pallone d’Oro e la vittoria di uno tra Messi e Ronaldo però non è più certa.
Nel 2019 l’assegnazione è andata al diez argentino, dopo un combattuto confronto con Van Dijk, che Messi vinse per soli sette punti di distacco: 686 a 679. I Reds quell’anno vinsero la Champions League e ottennero un secondo posto in Premier con 97 punti. E l’olandese durante tutta la stagione non venne mai dribblato, subendo appena 23 gol in PL. Tutto ciò però non bastò per strappare il Pallone d’Oro alla Pulce.

L’anno 2020 è stato senza dubbio un anno particolare, causa Covid-19 i campionati si sono fermati e alcuni, come la Ligue 1 non sono più ripartiti. Per una scelta presa di comune accordo dai giornalisti della redazione di France Football,il Pallone d’Oro non è stato assegnato a nessun giocatore, per non penalizzare nessuno. Ma in realtà qualcuno ha perso una grande occasione; Robert Lewandowski effettivamente quel premio lo avrebbe meritato ed era già quasi scritto il nome su quel pallone. Con il Bayern Monaco ha vinto tutto, il “Treble”: Bundesliga, Coppa di Germania e Champions League; più Supercoppa Europea e Mondiale per club.
Il bomber polacco per altro ha siglato 47 reti nell’anno solare 2020, piazzandosi per la seconda volta consecutiva primo nella classifica marcatori totale. Perde solamente la scarpa d’oro a discapito di un grandioso Ciro Immobile, che segna 36 gol.

Il 2021 invece ha due protagonisti indiscussi a contendere il titolo del pallone d’Oro: il solito Leo Messi e il sorprendente Jorginho.
Il primo, presenza fissa di determinati palcoscenici, il secondo di meno: nuovo, strabiliante, pazzo. Pazzo com’è la sua personalità fuori dal rettangolo di gioco e serio com’è quando si mette a dirigere l’orchestra nel centrocampo del Chelsea di Tuchel e della nazionale di Mancini.

Frello Filho Jorginho, classe ‘91, dal 1 gennaio 2021 ha vinto tanto, quasi tutto quello che c’era da portare a casa. Champions league, Europeo e Supercoppa Europea, con Chelsea e Nazionale italiana. Primo e unico giocatore, insieme ad Emerson, a vincere questo tris di trofei e, cosa più importante, lo ha fatto da protagonista indiscusso. Pertanto è entrato in nomina per il premio di miglior centrocampista dell’ultima Champions League, insieme a Kantè e De Bruyne.

Dall’arrivo del tecnico tedesco il Chelsea è cresciuto e con lo sviluppo della squadra è salito in cattedra anche “il Professore”, come viene soprannominato, affermandosi come l’ingranaggio mancante per ricominciare a far girare il club londinese e gli Azzurri.
In generale è un giocatore che pensa più da difensore che da centrocampista, fa da barriera, costruisce e gestisce egregiamente la manovra delle squadre. Come all’Hellas Verona dove si è messo in mostra, ma soprattutto nel Napoli di Sarri. Nelle squadre in cui ha giocato ha cucito un filo impercettibile e allo stesso tempo indistruttibile che lega la difesa e l’attacco, dando equilibrio e armonia.

Al Chelsea, con al fianco Kantè, ha avuto modo di crescere. Il francese per anni si è preso la scena e gli applausi e il giocatore italo-brasiliano ha imparato nel silenzio ed è migliorato sotto tanti aspetti. Adesso però è arrivato il momento che la standing ovation di Stamford Bridge, se la prenda a pari modo anche Jorginho.

All’Europeo si è presentato nel pieno del suo valore e della maturità. Ormai è tra i leader morali e tecnici della squadra; trasmette tranquillità alla manovra, e glacialità nei momenti difficili, prendendosi difatti la responsabilità di calciare entrambi i quinti rigori in Semifinale e in Finale. Ne segna uno e ne sbaglia un altro, ma non è quest’ultimo un dettaglio importante, fortunatamente. Partito dalle ceneri dopo la notte di San Siro è diventato pilastro del Rinascimento italiano, portando il tricolore sul tetto d’Europa.
Prestazioni che non sono passate inosservate fuori dal bel Paese, tanto da figurare anche nella top undici dell’Europeo.

Non ha mai lasciato la squadra in difficoltà, anche nei momenti in cui il crollo sembrava imminente, non ha mollato la nave e l’ha guidata sempre verso un porto sicuro. Ha dettato tempi di gioco, con gli occhi e con la voce, meritandosi pertanto il soprannome di “radio”.

Nella stagione 2020-21 ha collezionato 43 presenze con il Chelsea in tutte le competizioni, siglando 8 reti, di cui una in Champions League. Con la nazionale azzurra invece nel 2021 può vantare 8 presenze, 7 delle quali da protagonista ad Euro 2020.
Un gioco completo, il suo. Ha fatto una stagione perfetta, tatticamente, tecnicamente, caratterialmente, e soprattutto una stagione vincente.

“Se parliamo di talento, sono consapevole di non essere il migliore al mondo” – sono le parole di Jorginho riferendosi al tema pallone d’oro e al confronto con Messi – “Se invece si sceglie in base ai titoli, nessuno ha vinto più di me in questa stagione”.

Nella stagione 2020-21, Messi infatti ha vinto solamente la Copa del Rey in blaugrana, accumulando 47 presenze e 38 gol con il club. Di cui 30 in 35 partite in Liga e 5 gol in 6 presenze in Champions League.
Il suo Barcellona è arrivato terzo, sette punti dietro all’Atletico Madrid di Luis Suarez, dopo una combattuta volata a tre anche con il Real Madrid.

D’altra parte però Messi ha vinto il suo primo e attesissimo trofeo in Albiceleste, la Copa America. Anche lui da protagonista come l’italiano, ha condotto l’Argentina fino al trionfo in finale contro il Brasile, con 7 presenze e 4 gol, diventando per altro capocannoniere del torneo.


Messi, giocatore dalla classe fuori dal comune dovrà adesso assestarsi nel nuovo ambiente parigino, per portare a casa il suo settimo pallone d’oro.
Jorginho invece è chiamato a confermarsi nella stessa realtà e a conquistare l’ultimo trofeo raggiungibile con il Chelsea nel 2021, ovvero il Mondiale per club.
Noi “Viviamo per i sogni” dice Jorginho, quei sogni che si stavano infrangendo in giovane età al Verona, e che poi però hanno spiccato il volo toccando il tetto d’Europa a distanza di pochi anni.

La scelta sull’assegnazione del titolo è difficile, ma c’è la consapevolezza che mai come in questi ultimi quattro anni, il titolo di miglior giocatore del mondo è sempre più incerto.

Insigne-Napoli: una favola destinata a finire?

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Lorenzo Insigne è una pagina importante del calcio italiano contemporaneo. Non tanto per le sue doti tecniche e qualitative, che sono comunque al di sopra della media, ma soprattutto per la bandiera che rappresenta. Sei anni di giovanili nella squadra che ha sempre tifato fin da bambino, qualche prestito per crescere, per poi tornare e consacrarsi nel suo Napoli. Dapprima cresce professionalmente e caratterialmente sotto la guida di Marek Hamsik, e poi, dopo la cessione dello slovacco, prende in mano i partenopei. Esterno sinistro, 1.63m per 59 kg, destro magico e rapidità fulminante: con queste caratteristiche conquista la sua gente, facendola sognare in grande.

Con il Napoli vince poco, ma se sceglie questa strada i titoli diventano un plus da aggiungere ad un diverso palmares, quello affettivo. Sì, perché quando scegli di restare in una squadra per così tanti anni, è importante unicamente ciò che dai ogni anno alla tua gente. Lo sa bene Totti, che ha vinto poco e niente restando a Roma per tutta la sua carriera, diventando però un simbolo per i giallorossi. Insigne è un patrimonio da tutelare. Lorenzo è ciò di cui ha bisogno la tifoseria napoletana ed i borsoni pieni di milioni non devono essere parte fondamentale del giudizio. Il capitano dei partenopei, per questi ed altri 100 motivi, è il giocatore che più di tutti deve rimanere a Napoli.

Ci sono milioni di fattori da tenere in conto per la permanenza dello ‘scugnizzo napoletano’ a Napoli. In primis, Aurelio de Laurentis non vuole concedergli i 6 milioni da lui richiesti, non volendo andare oltre i 3.5. Ma Insigne tentenna, aspetta, e spera che un giorno ADL possa diventare più flessibile, per rimanere in quello che è il suo Napoli. Una favola del genere non può che finire in lieto fine. È troppo importante per lui quella città, quello stadio, quell’idolo, Maradona, che se fosse ancora vivo gli consiglierebbe sicuramente di rimanere. E allora che sono 3 milioni in più quando puoi avere la gloria eterna nella squadra di cui sei tifoso. Che valore hanno quei soldi se devi andare a giocare all’Inter, non essendone tifoso e addirittura avendolo odiato in più frangenti nell’arco della tua vita.

O’tiraggir”, così è stato soprannominato dopo la vittoria degli Europei, è davanti a un bivio. Un bivio nel quale ultimamente fin troppi giocatori, vuoi per ambizione o per puro amore del vile denaro, hanno scelto la strada razionale. E allora Lorenzo, facci continuare a credere nelle favole e nell’amore. Rinnova il contratto, fallo per innalzarti ancor di più, rimanendo a vita nella squadra che ami, tra la gente che ami, con lo stemma che ami.

Grealish: il nuovo eroe del calcio inglese

Per anni la Nazionale inglese, e più in generale il calcio britannico, ha vantato due tipologie di giocatori.

La prima incarna i valori del popolo inglese fuori dal campo: giocatori che ad un grande talento abbinavano una grande eleganza in campo e un’arroganza tutta British. Questa categoria trovava i massimi esponenti in Moore, Wright, Matthews, ma al giorno d’oggi si sta via via estinguendo. Infatti, tra i calciatori attuali, quelli che rispecchiano maggiormente questo stile sono solo Henderson e Kane. Non a caso il primo ha vinto tutto da capitano con il Liverpool, l’altro indossa la fascia della Nazionale.

L’altra tipologia invece è quella a cui viene associato lo stereotipo del giocatore inglese anni ’80. Ragazzi dal talento smisurato, ma troppo spesso frenato da una vita oltre le righe e da vizi malsani, su tutti quello dell’Alcool.

Al giorno d’oggi la questione però è diversa. La maggior parte dei calciatori che portano in giro per il mondo il nome dell’Inghilterra sono ragazzi con la testa sulle spalle, e che guidano i loro club incantando gli appassionati. A questi ragazzi talentuosi, in Nazionale vengono poi affiancati giocatori più esperti, che fanno da guida e faro per tutto il gruppo.

Quello che però storicamente è stato difficile trovare tra i calciatori inglesi è la via di mezzo. Un calciatore moderno per stile di gioco, ma fortemente legato a quello che è il background culturale e la tradizione del suo paese.
Nella squadra che ha raggiunto poco più di un mese fa la finale di Euro2020, c’è un ragazzo con queste caratteristiche. Il suo nome è Jack Grealish e, quando allo stadio lo speaker annuncia il suo nome, il pubblico va in visibilio.

Il talento di Solihull, città di poco più di 200.000 abitanti nella contea delle West Midlands nota più che altro per la sede della Land Rover, è il nuovo idolo dei tifosi inglesi. Non solo di quelli dell’Aston Villa, dove è cresciuto, o del Manchester City, dove si è accasato per consacrarsi, ma di tutta la patria calcistica.

Solihull, la città in cui nasce, è poco distante da Birmingham. Tutti sanno che nella città dei mille mestieri ragazzini sono chiamati ad una scelta. Come in tutte le città che vantano due squadre, i futuri tifosi sono chiamati a scegliere tra una delle due. La decisione per Jack ha solo due colori, il Claret e il Blue, i colori dell’Aston Villa. Come potrebbe essere altrimenti, per un ragazzino che ha un trisavolo, Billy Garraty, che per il Villa ha giocato più di duecento volte, vincendo anche un FA Cup.

Il ragazzo, all’età di sei anni, ha la fortuna di entrare a far parte delle giovanili della sua squadra del cuore, incantando fin da subito. La sua carriera sembra essere fin da subito brillante, nonostante forti traumi per un bambino così piccolo. Infatti, all’età di cinque anni e mezzo, Grealish perde il suo fratellino di appena nove mesi. Fatale per il piccolo Keelan la SIDS, sindrome della morte in culla. Nonostante ciò, Jack è riuscito a trarre forza da un episodio come questo e tutt’oggi ricorda spesso il fratello che oggi avrebbe ventidue anni.

Grealish nel settore giovanile dei Villans si mette in luce anno dopo anno, ricevendo tantissime attestazioni di stima. Addirittura vince, da assoluto protagonista, la NextGen Series nel 2013, trionfando in finale contro il Chelsea di Akè, Boga e Loftus Cheek. Durante la sua adolescenza poi, oltre al calcio, pratica un altro sport che gli si rivela molto utile anche nella sua crescita calcistica: il calcio gaelico.

Ciò lo ha migliorato dal punto di vista fisico e strutturale, e ne ha aumentato a capacità di lettura in anticipo delle azioni avversarie, incrementando reattività e imprevedibilità nei movimenti.
Una volta arrivato a ridosso della prima squadra, ecco che arriva il primo, e ultimo sin qui, prestito della sua carriera. Il 13 settembre del 2013 a credere in lui è l’MK Dons, il club che recentemente ha lanciato Dele Alli. L’esperienza parte a rilento, anche se alla fine riesce a racimolare cinque goal e sette assist. Un bel biglietto da visita che gli vale l’esordio con l’Aston nel maggio del 2014, il coronamento di un sogno.

La stagione successiva la sua presenza nell’undici iniziale è molto più frequente, ma senza mai trovare la via del goal. Jack, appena maggiorenne, è un giovane promettente che tuttavia non sembra avere le stimmate del fuoriclasse. L’arrivo della fama porta però con sé la classica etichetta riservata ai calciatori inglesi, quella di “bad boy“. Dopo la prima grande stagione tra i professionisti si concede infatti un po’ di meritato relax in quel di Tenerife, ma durante la vacanza abusa dell’alcool, a tal punto da essere fotografato ubriaco e sdraiato per strada stordito. La stampa inglese ne approfitta per dargli immediatamente addosso. Il Mirror Sport non ci va giù leggero e lo soprannommina “JackAss” giocando con il nome del ragazzo e il termine jackass, che in inglese significa idiota.

Questo episodio non rimarrà però isolato. Se ne conteranno diverse altre. Dalla serata in discoteca a Manchester a base di Vodka dopo la sconfitta contro l’Everton, fino al pestone a Coady e le sfrecciate con le supercar in pieno lockdown, concluse con un incidente, fortunatamente non grave per lui né per altri.

Nel frattempo i Lions sono scesi in Championship. La stagione, sotto la guida di Bruce, porta l’Aston a giocarsi i playoff, perdendo però in finale contro il Fulham. L’annata 2018/2019 è però quella che accende la luce dei riflettori sul talento di Solihull. Tutto cambia con l’arrivo in panchina di Dean Smith, grande tifoso del Villa, che cambia posizione in campo a Grealish. Da mezzala viene spostato sulla trequarti o sull’esterno, come ala sinistra.

In questa posizione Jack esplode definitivamente, conducendo da vero capitano, quale è stato da poco eletto, la sua squadra del cuore alla finale dei playoff, che questa volta lo vede vincitore. Due a uno al Derby County e di nuovo la Premier, che questa volta giocherà da protagonista. Dati importanti quelli con cui ha riportato i Claret and Blue nella massima serie inglese. Sei reti e sei assist, tra questi il passaggio smarcante decisivo nella semifinale playoff contro il WBA e il goal decisivo nel derby contro il Birmingham.

Anche se la stracittadina contro i Bluenoses resterà nella memoria dei tifosi principlamente per il pugno sferrato al capitano del Villa da parte di un invasore rivale. La vendetta, come si suol dire, è un piatto che va servito freddo, e in questo caso Grealish ha preso in parola l’aforisma. Goal decisivo con un sinistro in diagonale che decide la sfida al sessantasettesimo, ed esultanza con bagno d’amore della propria gente.

Un’annata, quella 2018/2019, che ha cambiato visceralmente Grealish. Smith, oltre a cambiargli posizione, gli ha inculcato anche la cultura del lavoro. Ha dichiarato l’allenatore dei Lions che non è inusuale vedere il fantasista fermarsi a dormire nel centro sportivo “Boodymoore Heath” per allenarsi il più possibile. In questa stagione è nata poi anche la leggenda dei suoi calzettoni. A chi diceva che lo faceva per imitare Best lui ha risposto che tutto è nato da una lavatrice fatta male. Ha deciso quindi di indossare i calzettoni abbassati la domenica, e poi non li ha più rialzati. Scaramantico anche dunque, come dimostra l’episodio degli scarpini rovinati, usati per tutto il finale di stagione perché considerati fortunati.

In Premier League si afferma in maniera definitiva. Anche se la squadra riesce a salvarsi solo all’ultima giornata, il ragazzo di Solihull mette a segno otto marcature e cinque assist. Tra questi anche quella decisiva nella sfida salvezza all’ultima giornata.

Quest’ultima annata invece lo ha finalmente posto tra i migliori del campionato inglese. Undicesimo posto con l’Aston Villa, a meno sette dalla zona Europa, e prestazioni strepitose, vedi il 7-2 contro il Liverpool, nel quale ha segnato due goal e fornito tre assist.

A settembre 2020 si sono spalancate per Grealish anche le porte della Nazionale maggiore. Lui che fino all’under 21 ha giocato con le selezioni giovanili irlandesi in virtù della doppia cittadinanza, salvo poi scegliere i Tre Leoni.

Jack the Lad, come viene chiamato in Inghilterra, è ormai giunto all’apice della sua carriera. Le prestazioni ad Euro2020, dove è stato eletto capopopolo all’unanimità dai connazionali, hanno fatto sì che le sue pretendenti aumentassero e l’addio alla squadra del cuore diventasse inevitabile. Sono stati anni, questi a Birmingham, dove Grealish ha saputo conquistare la tifoseria con sprazzi di talento che da quelle parti non vedevano dai tempi di Gary Shaw. Si è fatto amare dai tifosi per essere il nuovo working class hero. Molti hanno visto in lui la trasposizione in chiave moderna di Thomas Shelby, leader della banda criminale dei Peaky Blinders, serie tv ambientata proprio a Birmingham.

Tra i club che lo desideravano ha avuto la meglio il City, che con un’offerta da 117 milioni l’ha portato nel North West. Grealish è diventato quindi l’acquisto più costoso della storia del campionato inglese. Ad aggiungere pressioni, la scelta del numero di maglia, la dieci, che era stata di Aguero, probabilmente il più grande di sempre nella storia dei Citizens.

Lui ha però recentemente dichiarato, di non avvertire alcun tipo di peso. Anzi, di essere molto fiducioso nei propri mezzi. E come dargli torto, Grealish ad oggi è il prototipo di trequartista moderno, numero otto e numero dieci. A sua detta, non si vede ala sinistra, posizione in cui ha giocato all’Europeo, ma più fantasista puro.

Non particolarmente dotato fisicamente e atleticamente ma capace di sopperire a queste mancanze con un sinistro sopraffino, un dribbling elegante, una grande visione di gioco e una discreta dote balistica. Inglese nelle movenze e negli atteggiamenti, sta riuscendo a superare anche le problematiche caratteriali che hanno intralciato la carriera di molti suoi predecessori.

Per fattezze fisiche assomiglia a Beckham, con quel capello all’indietro, tenuto fermo dal gel e dal cerchietto. In campo sembra avere quel genio appartenuto a pochi calciatori albionici, tra cui Gascoigne e Rooney. C’è chi addirittura lo definisce un “Totti d’oltremanica”, ovviamente con le dovute proporzioni.

Paragoni importanti, che possono pesare tanto sulle spalle di un ragazzo di neanche ventisei anni, che sta per iniziare la sua prima esperienza in una big. Alcuni credono che Guardiola si stia mangiando le mani per aver ufficializzato Grealish poco prima della notizia dell’addio di Messi al Barcellona. Non vogliamo fare paragoni che si avvicinerebbero alla blasfemia, ma il talento di Solihull non ha nulla da invidiare a nessuno.

La nuova Coppa Italia: che delusione

La Coppa Italia è sempre stata lontano dall’ideale inglese della FA Cup. Diversa per composizione e regole. Vediamo le sostanziali differenze tra le due coppe nazionali.

Numero di partecipanti

Nella stagione 2008-2009 la Coppa d’Inghilterra ha visto prendere parte alla competizione 762 squadre, record uguagliato l’anno successivo. Nella Coppa Italia – nella passata edizione – erano ammesse 78 formazioni. Numero ridotto ulteriormente a 44 per il triennio 2021-2024. Nella nuova competizione saranno ammesse le squadre di Serie A e B, più quattro squadre di Serie C.

Accoppiamenti

La FA Cup non prevede teste di serie e gli accoppiamenti sono casuali. Nella Coppa Italia i posti all’interno del tabellone sono già prestabiliti, in più le migliori otto della Serie A entrano a partire dagli Ottavi perché testa di serie.

Tutte le squadre della Premier League, della Football League, della National League e delle tre leghe semiprofessionistiche locali possono partecipare alla Coppa d’Inghilterra. Ma anche i club estranei a queste leghe possono partecipare se hanno disputato nella precedente stagione FA Cup, FA Trophy o FA Vase e si ritiene giochino in una lega “accettabile” nella stagione corrente. Ovviamente, tutti devono rispettare norme di capienza e sicurezza degli impianti sportivi. In Italia come detto pocanzi, nel nuovo formato della Coppa Italia, a partecipare saranno 44 squadre (Serie A, B e quattro di C).

Data l’enormità della FA Cup, le maggiori società – dei rispettivi campionati – sono esentate da alcuni turni. Ad esempio, squadre che giocano la National League North o la National League South sono esentate fino al secondo turno di qualificazione, mentre quelle della National League sono esentate fino al quarto turno di qualificazione. Questo per evitare che partite di coppa e campionato possano essere in date troppo ravvicinate, o addirittura essere lo stesso giorno. Semifinali e finali sono sempre giocate nello Stadio di Wembley, a Londra.

C’è un però

Se dall’inizio dell’articolo abbiamo confrontato la FA Cup e la Coppa Italia, c’è da dire che la nostra coppa nazionale è un ibrido. Difatti, la Coppa Italia è riconosciuta come una “coppa federale” ma organizzativamente parlando è da considerarsi una “coppa di lega”, dove la sua omologa inglese è la English Football League Cup o meglio nota Carabao Cup per motivi di sponsor. La Coppa di Lega inglese è formata da tutte le 92 squadre professionistiche affiliate alla Premier League e alla English Football League. Numero di squadre ugualmente superiore anche alla vecchia Coppa Italia.

Insomma, a seconda di come vogliamo raccontare la storia, il calcio italiano non è inclusivo nei confronti dei club minori che spesso una visibilità maggiore porterebbe loro più tranquillità, senz’altro economica. Impossibile non fare l’esempio del Marine – squadra di ottava divisione inglese – che incontrando il Tottenham, in FA Cup, ha venduto oltre 30.000 biglietti: Sistemando economicamente il piccolo club per la prossima decade. Inutile nascondersi, le coppe nazionali sono il primo traguardo che più o meno tutti sogneremmo – da calciatori – di alzare. Inoltre, il romanticismo che portano con sé scontri al limite dell’incredibile, favole del calcio moderno sono impagabili. Quelle partite che anche i non appassionati vedrebbero. Per il solo gusto di guardare “Davide contro Golia”.

La nuova Coppa Italia porta via con sé molte speranze. Sarà sempre più difficile assistere a partite come nell’edizione 2017/2018 tra Inter e Pordenone (Lega Pro), oppure la semifinale tra l’Alessandria (Lega Pro) e il Milan, o come qualcuno ricorderà anche un Lumezzane (Serie C) e Udinese nella stagione 2009/2010. I friulani all’epoca si giocavano anche l’accesso in Europa. Che delusione. Peccato.

Pensate che bello sarebbe vedere ASD Fanfulla – Sassuolo agli Ottavi o un Taranto FC 1927 – Fiorentina, o ancora (e sarebbe più romantico) se il Trastevere potesse giocare contro la Lazio o la Roma dando vita ad un derby inedito per la capitale. Senza contare tutte le “vecchie glorie” che potrebbero rinascere.

In conclusione, se il vecchio formato ci ha dato – nel tempo – diverse emozioni più o meno romantiche, la nuova Coppa Italia sarà sempre più anonima e impostata. Lo strapotere di Milan, Inter e Juventus potranno lasciare il passo – al massimo – ad Atalanta, Lazio e Napoli solo ad anni alterni. Quello che mi auguro come tifoso, come abbonato e come calciatore è di vedere – finito il triennio – una Coppa Italia più FA Cup e meno Carabao Cup.

I sogni rubati e lo psicodramma neroazzurro

La sindrome di Stoccolma è uno stato di dipendenza psicologica. Paradossale, perché la vittima di un rapimento, di un furto o di una qualsiasi forma di violenza, è portata a provare simpatia ed empatia nei confronti del proprio aguzzino. Questa patologia fu evidenziata per la prima volta nel 1973, dagli studi di un criminologo svedese su alcune persone tenute in ostaggio per circa 6 giorni all’interno di una banca di Stoccolma, appunto.

Paradossale, come la situazione che stanno vivendo i tifosi dell’Inter. Zhang ha rubato i sogni costruiti negli anni precedenti. Li ha rapiti, chiusi dietro un muro di freddezza e distanza e portati in Cina, a milioni di kilometri da Milano. Quando il 21 agosto l’arbitro fischierà il calcio d’inizio di Inter-Genoa, quel tricolore cucito sul petto dei neroazzurri non sarà più motivo di festa, ma di depressione. Sarà il simbolo di una sindrome di Stoccolma che perdura da 113 anni. Il tifoso interista convive con i suoi tormenti e li ama.

Lukaku che dichiara amore mentre stacca il biglietto per Londra, destinazione Stamford Bridge, è solo l’ultima, in ordine cronologico, delle delusioni per i tifosi del biscione. Un gigante buono diventato simbolo di un popolo, voglioso di rivincite e affamato di vittorie. Come quel Fenomeno verdeoro bandiera di una speranza morattiana, naufragata prima ancora che potesse avverarsi.

Chiamate aiuto. Milioni di persone sono sull’orlo di una crisi di nervi. Qualcuno provi a fargli capire che, no, l’Inter non ricambierà questo folle amore. Un uomo in giacca e cravatta ha svuotato la Pinetina. I sogni sono finiti, adesso ci sono solo cifre da raggiungere, debiti da coprire e plusvalenze da registrare. I giocatori scenderanno in campo con il cartellino attaccato alla colletta. E il povero Simone Inzaghi si mangerà le mani. Oppure no. Oppure per lui sarà l’occasione per dimostrare un’altra volta il suo valore, compiere quel miracolo in cui sperano milioni di cuori. Ma questo è solo l’ennesimo sintomo. La realtà è dura e cruda. Il ciclo è finito prima ancora di cominciare. Suning è solo il nome del centro sportivo e la Grande Inter è di nuovo quella dei libri di storia in bianco e nero, i colori più odiati. Quelli che presto torneranno a far venire gli incubi.

Rimane l’amaro in bocca a tutto il campionato italiano, ormai fotocopia sbiadita dei tempi di gloria. All’alba del rinascimento azzurro, la Serie A continua a perdere attrattiva e top player. I soldi non circolano e il tasso tecnico continua a scendere. Lo psicodramma dell’Inter continuerà e farà felici gli avversari, ma non la Serie A. Qualcuno fermi Zhang e restituisca i sogni, e l’Inter, ai legittimi proprietari. Le uniche vittime di questa assurda sindrome di Stoccolma.

Apertura stadi: Governo contro ultras

Il Governo vuole un progressivo ritorno alla normalità, ad agosto stadi al 40/50% con greenpass. Gli Ultras tuonano: o tutti o nessuno.

Chiunque stia leggendo è ben conscio del periodo che ci stiamo – forse – mettendo alle spalle. Il COVID-19 è sempre all’ordine del giorno, ma da qualche tempo anche con l’aiuto dei vaccini i toni sono senz’altro meno accesi rispetto ai primi mesi dell’anno. Nonostante la variante “delta” sia ben radicata in Italia, il calcio non può attendere e in queste ore si sta parlando di riapertura degli impianti sportivi. Ancora una volta ci saranno importanti limitazioni per l’accesso agli stadi tramite l’utilizzo del green pass.

Si pensa ad una presenza ridotta tra il 40% e il 50% – a seconda del colore della regione – per tutti gli impianti di Serie A. Merito di questo primo rientro è sicuramente dell’Europeo conclusosi questa estate. L’evento ha fatto da apripista, il vaccino, poi, è sicuramente stato un ulteriore passo in avanti in questo senso.

Se però da una parte c’è la volontà di un ritorno alla normalità, qualcuno frena su questo fronte. Diversi gruppi ultrà italiani si dicono contrari a rientrare parzialmente. O tutti o nessuno. Si sono susseguiti diversi striscioni per l’intera penisola italiana e tra i primi ci sono i tifosi della Sampdoria, che in occasione dell’amichevole contro il Verona scrivono: “Per noi non è ancora il momento, rientreremo solo al 100%“. Striscione ripreso anche dal gruppo degli Eagles Supporters – di cui abbiamo parlato in un precedente articolo – che con l’occasione fanno partire un sondaggio Instragram tra i propri seguaci.

Quest’anno potrebbe essere l’anno decisivo per un rientro, anche parziale. Il nostro invito è quello di soffermarsi a come il paese era epidemiologicamente nel settembre 2020, a quali erano le aspettative per l’inverno e come il vaccino era una promessa. Le cose sono profondamente cambiate anche da inizio 2021, quando il nostro paese aveva visto un’intensa crescita del virus, ora fortunatamente diminuita. Il peggio è passato verrebbe da dire, ma non è del tutto così. Questo virus – che abbiamo imparato a conoscere – è imprevedibile. Subdolo. Aggressivo. Un rientro a capienza ridotta è la cosa più razionale, almeno per noi. Il nostro augurio è che nessuno possa essere discriminato, non vorremmo vedere troppi biglietti assegnati ad amici o parenti “dì”. In un calcio che è sempre più proiettato al guadagno è facilmente prevedibile un epilogo simile.

Ci attendono ancora mesi intensi, forse imprevedibili. Speriamo di poter gioire più quanto abbiamo sofferto la scorsa stagione.

Inghilterra: perché il calcio sta tornando a casa?

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Negli occhi di tutti noi sicuramente c’è ancora la finale di Euro2020 di qualche settimana fa, e questo titolo può risultare provocatorio. Eppure mai come in questi anni, questo tormentone rispolverato dai tifosi inglesi ogni qualvolta la loro Nazionale gioca una grande competizione, è attuale.

I Tre Leoni, nonostante siano la Nazionale più antica del mondo, hanno una bacheca semivuota. Tra i trofei infatti c’è solo una contestata Coppa del Mondo, conquistata in casa nel 1966. Per il resto briciole o poco più. Storicamente l’Inghilterra si è presentata alle grandi manifestazioni tra le favorite, ma quasi mai ha fatto percorsi brillanti. Le squadre però sono sempre state piene di grandi talenti, per lo più provenienti dai grandi club inglesi.

Una sola vittoria mondiale e qualche buon piazzamento tra coppa del mondo ed europei, tra cui il secondo posto di quest’estate, non possono bastare. E non devono bastare se parliamo di una Nazione con un’enorme tradizione in questo sport. L’Inghilterra vanta infatti uno dei campionati più affascinanti del mondo, oltre ad avere tifosi particolarmente caldi, a volte fin troppo.

Si è sentita quindi la necessità di un cambiamento radicale, una svolta che portasse la Nazionale inglese dove merita di stare. Fu perciò necessario un bagno d’umiltà, non scontato per un popolo orgoglioso come quello inglese, per imparare dai propri errori. La federazione ha cominciato a lavorare sui giovani, crescendoli, plasmandoli.
E i risultati di questo processo, iniziato dal direttore tecnico Howard Wilkinson tra la fine degli anni ’90 e gli inizi degli anni duemila, cominciano a vedersi. L’Inghilterra ha vinto nel 2017 il mondiale under 17 e quello under 20, mettendo in mostra una sfilza di grandi talenti.


I ragazzi che sono saliti alla ribalta con le Nazionali giovanili sono gli stessi che adesso fanno parte della Nazionale maggiore e sono punti cardine dei loro club. Tanto per citarne alcuni: Foden, Sancho, Rashford, Saka, Mount, Rice, Greenwood, Alexander Arnold, ma potremmo nominarne anche tanti altri.

Ad Euro2020 la nazionale inglese si è presentata con la seconda rosa più giovane del torneo: età media di 25,3 anni. A testimonianza quindi della bontà del lavoro svolto sin qui dalla FA sui giovani, che ha permesso al CT Southgate di arrivare in finale da favorito.

Com’è riuscita quindi l’Inghilterra a risollevarsi a livello di Nazionale? Quali programmi ha messo in atto la federazione per provare a raggiungere determinati obiettivi?

Il primo passo è stato compiuto nove anni fa, quando è stata ultimata la costruzione del centro sportivo di Burton, il Saint George’s Park. Il centro tecnico federale capitalizza tutte le attività calcistiche a livello giovanile e non solo, un po’ come accade a Clairefontaine, modello a cui si ispira dichiaratamente. L’ambizioso progetto parte quindi dal cuore del paese, nello Staffordshire, in una struttura con pochi eguali al mondo. 13 campi esterni, di cui uno è l’esatta copia di Wembley, un campo sintetico coperto, una struttura interna per il calcio a 5, un’area per la riabilitazione oltre ad un Hilton Hotel con 228 camere. Il tutto nell’area di 300 acri e per la modica cifra di 100 milioni di euro.

Qui vengono formati i campioni del domani seguendo specifici piani. Due in particolare: l‘Elite Player Performance Plan e l’English DNA.

Il primo nasce insieme insieme al centro sportivo di Burton. Il compito da svolgere è quello di forgiare il maggior numero possibile di talenti. Come? Attraverso tre step della carriera di un giovane calciatore: fondazione, dai nove agli undici anni, sviluppo giovanile, dai dodici ai sedici anni, e infine sviluppo professionale, dai diciassette ai ventitre anni.
Il secondo è probabilmente quello più decisivo nella formazione dei ragazzi. Si chiama “English DNA” ed è stato lanciato nel 2014. Si saluta senza particolare nostalgia il famoso “kick and run” in favore di un calcio manovrato, basato sul possesso palla e sull’intelligenza tattica del singolo. In sostanza, si punta a formare giocatori abili tecnicamente e tatticamente. Non solo però, perché assieme al lavoro col pallone si mira anche a far nascere un sentimento di rispetto ed orgoglio verso la maglia della Nazionale.

Com’è però strutturato l’ English DNA?

Questo progetto, di cui è stato un grande promotore proprio l’attuale CT Southgate, si fonda su cinque elementi-chiave.

Il primo è “Who we are” ed è basato sulla formazione di quel sentimento sopracitato verso lo stemma della nazionale inglese.

Dal secondo in poi si comincia a parlare del lavoro tecnico-tattico da fare sul giocatore. Nello specifico, “How we play” illustra come tutte le squadre dell’Inghilterra dovranno avere uno stile di gioco che rispecchi sul campo i valori dell’English DNA. Tutte le nazionali giovanili inglesi dovranno essere abili nel tenere in mano il pallino del gioco e capire quando attaccare l’avversario. In caso di perdita del pallone, sarà necessario recuperare il più efficacemente e velocemente possibile il pallone. Dovranno poi saper reagire ai diversi momenti di una stessa partita e mostrare duttilità in base allo schieramento dell’avversario.

Il terzo punto è quello che più strettamente tratta del plasmare del giocatore.
Quest’ultima identifica quattro aree differenti. Tecnica: i giocatori, in qualsiasi ruolo giochino, devono essere abili in tutti i fondamentali del calcio, anche quelli apparentemente meno usati nel loro ruolo. Tattica: i ragazzi devono essere intelligenti tatticamente, duttili. Devono sapersi adattare ad ogni tipo di gara, ad ogni modulo proprio e dell’avversario e a tutte le condizioni atmosferiche. Fisica: gli inglesi vogliono formare giocatori capaci di coniugare ottime doti fisiche ed atletiche. Si lavora molto su coordinazione, agilità, velocità, resistenza, forza, recupero e lifestyle. Sociale: nelle selezioni giovanili si vuole creare anche ragazzi educati, affidabili, responsabili, indipendenti, aperti al dialogo e al lavoro di squadra anche fuori dl campo.

Il quarto punto, “How we coach“, tratta invece in maniera più accurata del ruolo dell’allenatore. Gli allenatori devono seguire le specifiche linee guida dell’English DNA per preparare le sedute d’allenamento. Oltre all’essere sempre positivi verso i ragazzi, le sedute devono essere il più realistiche possibili. Ogni allenamento il giovane calciatore deve poter prendere molte decisioni, soprattutto palla al piede. Il coach, dal canto suo, deve essere a bravo ad utilizzare stili di allenamento differenti basati sulle necessità del gruppo squadra e deve far sì che la maggior parte della seduta, il 70%, sia svolto con il pallone.


L’ultimo punto, “How we support“, illustra come i talenti del futuro vengano assistiti da una serie di servizi per migliorarne le performance. Questi servizi possono contare sull’ausilio di specialisti in discipline mediche, psicologiche e analitiche. Il ruolo di queste persone è importante per la crescita non solo in campo del gruppo squadra, ma anche a livello personale nella vita di tutti i giorni.

Questo è quindi il modus operandi che la FA ha deciso di mettere in pratica da una decina di anni a questa parte. Una rivoluzione per il calcio inglese come ci eravamo un po’ tutti abituati a conoscerlo. Viene abbandonato quel modo arcaico di intendere il calcio, in favore di una visione più moderna.

Il futuro calciatore dovrà essere intelligente dentro e fuori dal campo per performare al meglio. Questa è un po’ la sintesi del lavoro che la federazione con l’aiuto degli allenatori sta cercando di svolgere per permettere alla nazionale maggiore di riportare il calcio a casa.

Difficile però immaginare che con questa programmazione ci vorrà ancora tanto.

La storia degli Eagles Supporters

Gli Eagles Supporters li avevamo, brevemente, trattati all’interno di un vecchio articolo sulla curva Nord. Questa volta conosceremo più da vicino coloro che esordirono con lo striscione più lungo della storia: 54 metri.

Gli Eagles Supporters muovono i primi passi in un turbolento 1977, da quelli che erano i Gruppi Associati Bianco Azzurri (GABA), erroneamente chiamati i primi anni di vita Gruppi Armati Bianco Azzurri. All’epoca il tifo laziale, disposto su entrambe le curve, si era riunito in una sola sigla – per via delle numerosissime realtà presenti – per divenire così un fronte compatto e facilmente riconoscibile.

Il passaggio dai GABA agli Eagles non è semplice né breve. In via Simone de Saint Bon 47 – sede all’epoca del gruppo – vanno in scena una serie di affollatissime riunioni, alle quali parteciperanno tutti i responsabili e i capi-gruppo esistenti della tifoseria laziale. Ricordiamo ad esempio il Commandos Monteverde, rappresentato da Gino Ceccarelli, Francesco Troncarelli, Massimo Grifoni, Aldo “lebbra” e Fabrizio Zambonini, ma anche le Aquile di piazza Bologna, le Brigate San Giovanni con Guido de Angelis, Remo Remoli e tanti altri sodalizi. Farà da mediatore, in questo delicato momento, Antonio Di Vizio “Tonino” figura carismatica dei Lazio Clubs e Presidente dell’Associazione Italiana Lazio Clubs (AILC).

Di Vizio (sinistra) con il Presidente della Lazio Lenzini (destra) negli anni 70.

La decisione del nome che avrebbe riunito tutte le sigle è un percorso tortuoso, sulle spalle del nuovo gruppo gravava la pesante eredità delle precedenti realtà ultras. Solo nel 1978 il nome sarebbe arrivato, come un’illuminazione. Proposto da Marco Saraz, figura di spicco della scena ultras romana. L’aneddoto è curioso: dietro ogni lettera spedita da Sergio Puglisi, tifoso del Verona, c’era scritto “Hellas Supporters” con il simbolo della scala e tre pioli simbolo delle Brigate Giallo Blù. Il passo fu breve. Nacquero gli Eagles Supporters.

Si scelse la lingua inglese, perché in italiano “Tifosi delle Aquile” non era sufficientemente d’impatto.

Lo striscione più lungo d’Europa

L’esordio migliore di sempre

Il neonato gruppo ci teneva ad esordire nel migliore dei modi, la stagione 1978 era l’occasione migliore. Si raccoglievano soldi e ogni laziale faceva la sua parte, compresi alcuni dirigenti della Lazio. L’idea era di regalare alla Lazio lo striscione più lungo d’Europa. Stoffa blu e lettera dopo lettera per permettere alla vernice bianca di asciugarsi, nella sede di via Simone de Saint Bon 47 prese forma lo striscione. Mancava il simbolo.

Lo striscione era composto da un lato dallo scudetto vinto nel 1974 e dall’altro la Coppa Italia 1958. Unici trofei vinti dalla Lazio fino a quel momento.

Il simbolo

Tra politica e sport

Siamo alla fine degli anni ’70, dopo un inizio di decennio difficile – cominciato con la strage di Piazza Fontana (1969) – in Italia la sinistra radicale e la destra estrema sono in fermento. Il calcio, come spesso accade, è il contenitore sociale in cui la politica si radica nei gruppi organizzati: il primo simbolo sarebbe stato figlio di questo clima.

La prima idea – di un certo Marrakech, un signore tanto scuro da sembrare marocchino – era quella di proporre l’aquila della Wehrmacht, le forze armate tedesche durante la seconda guerra mondiale. Però, purtroppo, quello stesso anno sarà segnato dalla morte di Vincenzo Paparelli, ucciso da un razzo esploso dalla curva sud. Il Governo abolirà, da lì a poco, qualsiasi simbologia nazi-fascista o di riferimento palesemente politico. Ora il simbolo doveva necessariamente cambiare. Viene così scelta la testa dell’aquila, simbolo dell’Eldorado Lazio di pallacanestro. Un restyling decisamente più moderato e pulito, ma ugualmente accattivante.

Logo degli Eagles Supporters

Il gruppo laziale come fenomeno di massa

Nasce la rivista degli Eagles

Il 1 ottobre 1978 gli Eagles facevano la loro comparsa in uno Stadio Olimpico stracolmo all’inverosimile. Lo striscione di stoffa blu (immortalato anche in una storica sigla di 90° Minuto) era un successo. Quell’incontro la Lazio lo pareggió contro la Juventus per 2 a 2, e in quella stessa stagione il successo del gruppo fece sì che nacque un editoriale dal nome proprio “Eagles Supporters”, distribuito in curva nord prima di ogni partita casalinga. Il direttore era Antonella Pirrottina, giornalista, e tra le firme anche Gianni Walter Bezzi e Stefano Mattei, ora giornalisti della Rai, così come Ugo Trani, ora a “Il Messaggero”.

Il gruppo scriveva all’interno della rivista qualche anno più tardi: “Gli ES sono autonomi e le loro uniche entrate provengono dal tesseramento che consente ai giovani di iscriversi o come soci con sole 3.000 lire o come sostenitori con 5.000 lire, validità annuale. Le spese sono enormi: solo per le trasferte occorrono tanti soldi e così gli ES cercano di aumentare i loro introiti con i contributi degli altri tifosi durante le partite in casa. Non è certo il modo migliore, ma ciò permette di non chiedere niente alla società rimanendo fuori da manovre di qualsiasi tipo. La notorietà è stata ottenuta in tutta Italia con la partita Lazio-Torino con lo striscione «Forza Radice vinci lo scudetto della vita», un gesto nobile che ha dimostrato il cuore di questi ragazzi (Radice, allenatore del Toro, aveva avuto un terribile incidente d’auto, ma alla fine si salvò – n.d.r.)“.

Cos’altro aggiungere? Semplicemente fantastico.

L’ingiusto scioglimento

ieri e oggi

Con l’arrivo in curva degli Irriducibili (1987), il tifo organizzato comincia a vivere momenti di forte tensione. I due gruppi durante le trasferte cominceranno a sfidarsi prima con i soli sguardi, successivamente arrivando alle mani. Durante un Lazio-Verona si arriva alla resa dei conti, un risultato che era nell’aria da tempo. L’immensa rissa tra i due gruppi porta con se danni e sei diffidati: tra questi i due leader dei gruppi. Davvero una brutta pagina per la curva biancoceleste. I successivi incontri della stagione sportiva saranno surreali, la curva per protesta non canta e non espone nessun simbolo. Proseguirà anche durante la successiva stagione, ma solamente per i primi 45 minuti di partita per non penalizzare eccessivamente la squadra. Le due tifoserie proseguiranno con il silenzio a intermittenza di fronte all’impotenza dei Lazio Clubs fino al rientro di alcuni diffidati.

Se nella stagione 1992-1993 il Presidente Cragnotti allestì una squadra per il ritorno in UEFA, il clima in curva peggiora. La frattura era insanabile e la supremazia degli Irriducibili sugli Eagles oramai era evidente. Gli Eagles si sciolsero dopo poco tempo, in concomitanza con un ultima rissa che vedrà i due gruppi protagonisti, addirittura con lancio di oggetti e torce. L’avvenimento fu storico, con l’addio degli Eagles si sciolsero infatti anche due gemellaggi importanti con gli ultrà di Torino e Bari.

Oggi il gruppo non è scomparso, è presente allo stadio olimpico e non è difficile leggere il loro nome. Fanno sentire la loro presenza anche sui social, facendosi conoscere ai più giovani che per motivi anagrafici non hanno potuto assistere a questo fantastico spettacolo.

Il nostro augurio è quello di vedere sempre un loro striscione o una loro bandiera sventolare, per tutti i laziali sono la storia passata ma anche una bella pagina del presente. Chissà che un giorno non possano tornare al loro “muretto” e cantare come hanno sempre fatto e continuano a fare seppur spostati. Ci sono stati nei momenti più duri della società capitolina, come gli anni della Serie B, e siamo sicuri che ci saranno sempre.

P.S: l’articolo è stato possibile anche per il contributo di Lazio Patria Nostra.