Il primo furto, Genoa-Bologna

La squadra, i colori, lo stemma, i valori. Tutte cose che ogni tifoso di calcio porta con sé quando la domenica soffre allo stadio, o davanti a uno schermo. Quei 90 minuti settimanali sono un frullato di emozioni e attesa, attesa di provare la gioia della vittoria. Tutto questo è amplificato quando la partita vale una stagione, quando è una finale. La vista di un trofeo in fondo al processo emotivo fa sì che il tifoso senta suo tutto ciò che accade in campo.

Per questo il termine “furto” nel calcio è usato spesso. Usato quando viene negata la gioia, non per demeriti sportivi, ma da un fattore extra, talvolta astratto, ma talvolta concreto. Per questo quando succede qualcosa di controverso sul campo da calcio i tifosi parlato di furto e di ladri. Qualche volta si tratta di complottisti, i quali non riescono ad accettare che tutta quell’attesa sia culminata in una cocente sconfitta. Qualche volta si tratta di persone veramente derubate, derubate della passione.

La storia del calcio, e quella del calcio italiano, è disseminata di scandali dove qualcuno “ha rubato”. Tutti ci ricordiamo dello scandalo di Calciopoli nel 2006, con molte squadre coinvolte e una rete, battezzata poi Cupola, quella di Moggi-Giraudo, impegnata a falsare campionati per ottenere, da palazzo, vittorie, trofei ed emozioni da regalare ai tifosi. Emozioni illecitamente rubate agli altri e sporcate da valori opposti a quelli sportivi.

Ma quella brutta pagina del calcio è solo l’ultima di un libro, purtroppo, molto lungo. Perchè se oggi il calcio è ripreso da ogni angolatura da occhi indiscreti e la tecnologia sta cercando di porre fine a situazioni analoghe, nel passato il forte potere che il calcio aveva sulle folle è stato più volte sfruttato da uomini politici e non, per rubare e regalare ad altri le emozioni della vittoria. I palazzi più volte hanno immerso le mani nel felice mare del pallone, sporcandolo di fango per poi cercare di ripulirlo agli occhi delle masse. Senza riuscirci.

Uno dei casi meno famosi, ma comunque eclatanti, riguarda una partita del 1925, una finale per decidere chi, della Lega Nord, si sarebbe guadagnato il diritto di giocarsi lo scudetto contro la squadra del Sud. A giocarsi quella partita c’erano i felsinei del Bologna e i precursori del Genoa.

Il contesto storico in cui si calava il match è molto complicato da descrivere: il fascismo aveva ormai consolidato la sua dittatura e iniziava a capire come sfruttare il calcio a suo favore, i podestà delle varie città prendevano il controllo delle squadre. In pochi avevano il coraggio di andare contro alle decisioni che il partito fascista prendeva, anche in ambito calcistico, e il campionato italiano, ancora spezzato in due gironi, ne iniziava a vedere le conseguenze.

E proprio un podestà ebbe un ruolo importante nella storia che oggi andiamo a scoprire. Leonardo Arpinati fu il leader dei gruppi fascisti che, armati di manganello e olio di ricino, presero il controllo di Bologna e più tardi del Bologna, la squadra di calcio. Come detto in precedenza, lo scudetto veniva assegnato dopo una serie di quelli che oggi definiremmo play-off. In quella stagione Bologna e Genoa dovettero giocare ben 5 volte la finale della Lega Nord, tutto perché, con le regole dell’epoca, se alla fine dei tempi regolamentari e dei supplementari il risultato fosse ancora di parità, non ci sarebbero stati calci di rigore ma semplicemente un rematch, in stile FA Cup.

Il 7 Giugno del 1925, a Milano, si disputò la terza partita della serie davanti a una folla di circa 20.000 persone, incluso Arpinati. Fu un dramma: alla fine del primo tempo i rossoblù liguri conducevano per 2-0 e si avviavano alla finale scudetto, ma nella ripresa il Bologna andò all’arrembaggio e un suo giocatore, Muzzioli, calciò la palla verso la porta dei genoani. Non si riuscì a capire: dentro o fuori dalla porta? Il primo gol fantasma della storia del calcio. Il portiere si allungò e mise la palla a lato della porta, l’arbitro, Giovanni Mauro ex calciatore di Inter e Milan e una delle figure più imponenti del calcio dell’epoca, assegnò un calcio d’angolo agli emiliani.

Scattò l’invasione di campo da parte dei tifosi del Bologna, guidati dal gerarca fascista Arpinati. L’arbitro venne circondato per 15 minuti da camice nere e alla fine cambò idea e assegnò il gol al Bologna, che prima della fine della partita riuscì ad acciuffare il pareggio. Il Genoa, per protesta, si rifiutò di scendere in campo per i supplementari. Secondo le regole, dopo l’invasione bolognese, ai liguri sarebbe spettata la vittoria a tavolino, ma l’arbitro citò di rado l’invasione di campo nel rapporto ufficiale. Così il 5 Luglio a Torino si giocò la quarta finale.

La partita di Torino finì di nuovo in parità, ma i tifosi delle due squadre si scontrarono alla stazione di Torino Porta Nuova, dopo il match. Partirono addirittura degli spari, qualche giornale parla di 6 altri parlano di 20 colpi, 2 tifosi del Genoa vennero trasportati all’ospedale, mentre al Bologna venne recapitata una semplice e piccolissima multa. Per la prima volta nella storia del football tricolore, il calcio era diventato un problema di ordine pubblico. Tanto da decretare la quinta partita in completa segretezza, alle 7 di mattina, a porte chiuse nella periferia di Milano. Ai giornalisti venne ordinato di far finta che la partita fosse prevista a Torino e i giocatori del Genoa dovettero rientrare dalle vacanze per disputare l’ennesima finale.

Il Bologna, a due mesi di distanza dai fatti di Milano, vinse 2 a 0 e si aggiudicò poi lo scudetto. Giuliano Montaldo, negli anni ’90, disse che a Genova non si parlava d’altro prima della guerra. Non si parlava d’altro se non del furto di Milano, il primo nella storia del calcio. Il Genoa non vinse mai più uno scudetto, quello che sarebbe valso la stella. Alcuni blog di tifosi felsinei provano a giustificare la decisione dell’arbitro Mauro, a Milano, sostenendo che la rete fosse bucata, ma la storia rimane.

Arpinati nel 1926 venne nominato podestà di Bologna e più tardi presidente della FIGC, ruolo che coprì fino al 1933. Grazie alla sua presenza, il Bologna regnò sovrano fino allo scandalo finanziaro del 1934. Ma se andate a Genova, sponda rossoblù, e chiedete cosa pensano del Bologna, molti vi risponderanno con una sola parola: “ladri”. Secondo i genoani, a Bologna sono colpevoli di aver rubato una stella, ma forse molto più. Colpevoli di aver rubato le emozioni.

James McClean hates the Queen

LondonDerry, Irlanda del Nord. La seconda città delle 6 contee britanniche nell’isola irlandese. Un nome imposto dalla corona, per placare l’animo della maggioranza cattolica presente in città. La stessa maggioranza che, nel corso dei cosiddetti Troubles, marciava per i Civil Rights e la stessa maggioranza vittima di nefaste violenze e discriminazioni. Se nasci a Derry e sei cattolico, molto probabilmente non esporrai mai la Union Jack fuori dal tuo balcone. Non tiferai mai Linfield e quando in Scozia si gioca l’Old Firm, difficilmente tiferai per i Rangers.

Camminando per Derry ammirerete una cosa molto rara nel resto dell’Ulster: la bandiera irlandese. Sì, perchè oltre ad essere cattolica, la maggioranza della popolazione di Derry è repubblicana, cioè condivide lo stesso sogno di uomini come Bobby Sands: un’Irlanda unita e senza discriminazioni. La squadra della città, il Derry Football Club, non gioca nella lega nordirlandese, ma nella Airtricity League dell’Eire e lotta per un posto in Europa. Per troppi anni, durante la sua permanenza nel campionato di casa, la squadra è stata vittima di ingiustizie manovrate dal palazzo del calcio a maggioranza lealista, e che quindi vedeva di cattivo occhio la presenza di una tifoseria così tanto esposta contro le loro idee e che, inoltre, non portava il nome imposto, ma quello ribelle: FreeDerry.

Murales a Derry

Ma perchè parlare di questa cittadina, sconosciuta ai più, e protagonista di brutte e tristi vicende, come le Bloody Sunday? Perchè a Derry, nel 1989, nasceva James McClean. McClean è un giocatore dello Stoke City, nella seconda divisione inglese, nato e cresciuto nei territori delle 6 contee sotto il dominio della corona inglese, ma che mai nella sua vita ha pensato di rappresentare. Lui ha infatti vissuto i suoi 15 minuti di fama quando, con la maglia del WBA in Premier League, si rifiutò di vestire il poppy.

Nei paesi che una volta formavano il Commonwealth è usanza festeggiare, l’11 novembre, il Remembrance Day, giorno in cui si commemorano i militari dei paesi britannici caduti durante la prima guerra mondiale. Le commemorazioni partono da metà ottobre e sono un’usanza particolarmente sentita dagli abitanti e dalle istituzioni di questi paesi.

In Premier League, ma in generale in tutti i campionati inglesi, le squadre partecipano al ricordo cucendo sulla maglia il famoso poppy (papavero). Il papavero rosso è il simbolo di questi festeggiamenti e venne scelto perchè era il fiore che sbocciava in alcuni dei peggiori campi di battaglia nelle Fiandre e ripreso dal poeta e medico canadese John McRae.

Un gigantesco poppy di cartone tenuto da due soldati al centro di un campo da calcio

James McClean si rifutò più volte di vestire quel simbolo, scatenando l’ira di tutti, compresi i suoi tifosi. La sua scelta fu dettata da una semplice ragione, per lui: quel fiore commemora tutti i caduti dell’esercito del Commonwealth, ma non quelli irlandesi mandati alla guerra. Neanche le vittime della guerra civile scoppiata proprio in Irlanda nel 1916, dopo la rivolta di Dublino in cui alcuni degli uomini di spicco della società irlandese avevano provato a ribellarsi alla corona e riscattare quell’indipendenza portatagli via secoli prima. Da quella guerra, finita nel 1921, nacquero l’Eire e l’Ulster e con loro i Troubles. In quegli anni persero la vita migliaia di irlandesi, sotto i colpi dei fucili inglesi, e negli anni successivi altri 2000 civili morirono negli scontri tra chi cercava di liberarsi da una tirannia e chi la difendeva col sangue.

McClean visse gli ultimi anni di quello che passò alla storia come “Il conflitto nordirlandese”, concluso nel 1998 con il Good Friday Agreement che permetteva a tutti i cittadini nordirlandesi che volessero prendere cittadinanza dell’Eire, di ottenerla. E infatti, McClean si rifiutò di vestire la maglia della nazionale nordirlandese, quella di George Best, in favore di quella che lui considera come la vera patria: l’Irlanda.

James McClean, al centro, senza il poppy

McClean è diventato l’idolo, il simbolo, di tutti quelli che ancora lottano per un’Irlanda unita e senza discriminazioni settarie. Le sue forti prese di posizioni l’hanno reso amato dalle tifoserie di squadre come Celtic o il suo Derry FC, in cui ha iniziato la carriera da professionista dal 2008 al 2011, ma odiato in altre. In Inghilterra la sua presenza è accompagnata da fischi e minacce. L’odio nei suoi confronti ha portato la FA ad aprire, per la prima volta nella sua storia, un‘indagine per insulti settari, dopo le pressioni dei media e del giocatore vittima di minacce di morte. Una figura controversa che insegna ancora una volta quanto il calcio possa essere mezzo di comunicazione e che, nella sua magia, può essere terreno di frizioni che vanno ben oltre al normale campanilismo da provincia.

Marco Brescianini, storia di un sogno rossonero

Il sogno di tutti quelli che iniziano a giocare a calcio. Un sogno portato avanti con dedizione e amore. La storia di uno dei migliori prospetti del Milan: Marco Brescianini

Giocare per tutta la vita nella squadra del proprio cuore. Il sogno di tutti. Essere come Maldini, essere come Totti. Iniziare dai pulcini e arrivare alla prima squadra, esultare sotto i propri tifosi, prendersi l’abbraccio della folla di cui una volta si era parte. Il sogno di Marco Brescianini. Mezzala classe 2000 della primavera del Milan.


Marco viene da Calcinate, come il gallo Belotti, e sogna di poterlo sfidare sul campo da calcio, con la maglia rossonera cucita addosso.
Arrivato al Milan all’età di 7 anni, la prima squadra era già il sogno, non troppo nascosto, di Marco. Ma se glielo chiedete oggi, probabilmente, vi parlerebbe di obiettivo più che di sogno.


11 anni passati a rincorrere un pallone con il diavolo nel cuore. Anni difficili, perché il calcio sa essere spietato e tante volte è facile arrendersi, restare tra la folla allo stadio e lasciare il campo a chi è più determinato. Determinazione, parola chiave per Marco che ne ha dovute passare prima di diventare il perno della primavera del Milan. Perché nella trafila delle giovanili, per tre o quattro anni, Marco il campo lo ha visto poco. Il motivo? Una delle frasi più ricorrenti nella storia del pallone: “ha un fisico troppo gracilino“. Ma la determinazione non lo ha mai fatto fermare e adesso dal campo non lo toglie più nessuno.


Anni di allenamenti e sacrifici portano sempre risultati. Ma sognare in grande significa non accontentarsi mai, non essere mai sazio e saper essere lontano dalle emozioni. Perché a volte quello che può sembrare un traguardo, è solo un punto di partenza. Come, per esempio, andare in tournée con la prima squadra e giocare qualche minuto in International Champions Cup. Per Marco la chiamata per il ritiro coi grandi era già arrivata l’anno scorso, con Rino Gattuso alla guida della squadra, ma quest’anno il Professor Giampaolo ha ripagato il suo lavoro con qualche presenza nelle amichevoli di cartello. Ma le emozioni non sono mai state un problema per lui che le ha sempre sapute vivere in modo distaccato. Da quando è tornato dalla tournée lo trovate a lavorare più sodo di prima, perché è bello giocare davanti a 50.000 persone, ma lui lavora ininterrottamente da 11 anni per farlo ogni Domenica. Non in qualche partitella estiva.

Brescianini al momento del rinnovo con il Milan

Mentalità glaciale e determinazione. Come Cristiano Ronaldo, punto di riferimento di milioni di giovani calciatori e anche di Marco, che vede in lui un esempio di professionalità. Lavorare sodo, partire dal basso, conquistarsi la fiducia di tutti quelli che in te non vedono un campione per poi smentirli sul campo a suon di ottime prestazioni. Come Ronaldo.
Se andiamo a vedere il modo di giocare, qualcuno prova ad accostare Marco a Toni Kross, mezzala con ottima visione di gioco e gran tiro da fuori. Ma Marco ha le idee chiare e guarda ad altri. Bonaventura, Fabian Ruiz o Milinkovic Savic. Questi sono i suoi punti di riferimento, persone da raggiungere, con cui un giorno condividere lo spogliatoio o con cui battagliare sul campo. Non semplici idoli da Playstation.

Brescianini, a sinistra, con Daniel Maldini, figlio di Paolo

Così, tra un giro a Calcinate con gli amici di sempre e un gol nel derby primavera, Marco prova a scrivere le pagine della sua vita usando solo due colori: il rosso e il nero. Provarci è ancora più facile quando in squadra c’è Daniel Maldini, figlio di Paolo. Quando, dopo un’estate di mercato che lo voleva lontano da Milano, “per farsi le ossa”, la società decide di rinnovare il contratto fino al 2024. E indovinate chi c’è accanto a Marco, nella foto di rito in occasione del rinnovo: proprio Paolo Maldini.
Un segno del destino? Probabilmente lo scopriremo solo col tempo, ma intanto Marco non si ferma: 2 gol in 3 partite di Campionato Primavera 2, l’ultimo decisivo per la vittoria 3-2 del Milan sul Venezia. Ringrazia la fiducia del Milan, provando a trascinare la squadra, come il migliore dei capitani. Glaciale e determinato, per continuare a vivere il sogno. Il sogno di tutti.

The biggest rivals: Man United – Liverpool

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Oggi alle 17.30 andrà in scena all’Old Trafford il North-West-Derby. In altri termini, lo scontro tra le due squadre più titolate d’Inghilterra e legate da una storica rivalità. Una rivalità che non guarda alla classifica, ma che si avverte ugualmente nonostante la differenza del valore dei momenti dei club. Il grande Liverpool degli anni 70-80 non vedeva nello United l’avversario più temibile, così come i Red Devils di Sir Alex Ferguson trovavano più ostico il confronto contro l’Arsenal di Wenger piuttosto che contro i Reds: eppure la rivalità è sempre stata alimentata.

Nonostante non possa essere indicato come un derby vero e proprio, nell’immaginario collettivo è divenuto l’incontro più sentito da entrambe le tifoserie e dai calciatori.

Liverpool era nel XIX secolo un porto europeo, Manchester una città industriale. Le due, distanti tra loro appena 57 km, lavoravano insieme le merci, che venivano prodotte a Manchester ed inviate a Liverpool per essere esportate altrove. Ad un certo punto, nel periodo in cui il crescente traffico navale lungo il Manchester Ship Canal iniziò ad aumentare a dismisura e le attività del porto di Liverpool si ridussero, la città venne tagliata fuori dal traffico e cadde in una situazione di depressione economica. La disoccupazione nella città di Liverpool portò numerosi marinai e portuali a spostarsi verso Manchester, dove però non trovarono la benevolenza degli ex soci: il coro “you’ll never get a job” è un vero e proprio insulto, sia per il chiaro e sarcastico riferimento all’inno dei Reds “you’ll never walk alone”, sia per lo sfottò  in tema di disoccupazione.

Manchester Ship Canal nel XIX secolo.

Il Liverpool è senza ombra di dubbio la squadra più in forma del campionato, ma senza aver ancora raggiunto la perfezione del finale della stagione passata. Parliamo allora di efficacia: 8 vittorie su 8 partite e primi a punteggio pieno, troppo anche per il City di Guardiola. La prolungata assenza di Alisson si pensava avrebbe pregiudicato sensibilmente i Reds, ma Klopp ha trovato un valido sostituto che non ha fatto rimpiangere il brasiliano.

Discorso diametralmente opposto va fatto in casa United. Dopo l’addio di Sir Alex Ferguson lo United non è mai riuscito a tornare al top, anche se non va dimenticata la vittoria di Mourinho in finale di Europa League contro l’Ajax dei baby De Jong e De Ligt. Probabilmente la fretta di tornare ai vertici e di chiedere il risultato sono le cause dei tanti esoneri e dei tanti soldi spesi per giocatori che non hanno soddisfatto le aspettative. Sir Alex, dal suo arrivo nel 1986, ha impiegato tre anni e mezzo prima di vincere con lo United il suo primo trofeo, una Coppa d’Inghilterra. Da quel momento sono 13 i campionati inglesi portati a casa e 2 le Champions League. In questo arco di tempo, invece, il Liverpool ha vinto la Premier League solamente due volte, laureandosi però  campione d’Europa  nel 2005 e nel 2019.

Sir Alex Ferguson è stato allenatore del Manchester United dal 1986 al 2013.

Ad oggi i Red Devils hanno solamente 9 punti ma, come abbiamo già accennato, la classifica non conta in questo tipo di match. Gunnar Solskjær dovrà fare anche fare a meno degli infortunati De Gea e Paul Pogba: il primo ha problemi con gli adduttori dalla partita in nazionale con la Svezia, il secondo soffre un fastidio alla caviglia che lo costringe ai box. Alla luce di ciò, i pronostici vedono il Liverpool favorito, ma il calore che trasmetterà il Teatro dei Sogni potrà essere il tredicesimo uomo in campo per i padroni di casa.

La quiete prima della tempesta…

Probabili formazioni:

Manchester United (4-2-3-1): Romero; Wan-Bissaka, Lindelof, Maguire, Young; McTominay, Matic; James, Mata, Rashford; Martial.

Liverpool (4-3-3): Alisson; Alexander-Arnold, Matip, Van Dijk, Robertson; Henderson, Fabinho, Wijnaldum; Salah, Firmino, Manè.

Il teatro dei sogni (infranti)

Ecco un nuovo appuntamento con la rubrica “I Templi del calcio”. Oggi parleremo dell’Old Trafford, storico stadio del Manchester United, ma provando a farlo in un’altra ottica.

George Best, Bobby Charlton, Cristiano Ronaldo, Brian Robson, Eric Cantonà, David Beckham, Paul Scholes, Ryan Giggs, Denis Law. Potremmo stare qui ancora un po’. Ma cosa accomuna tutti questi giocatori? Facile, no? Il Manchester United, la squadra più tifata e ricca del mondo, i Red Devils. Diversi fattori associano la storia dello United al mito, i giocatori elencati sopra di certo aiutano, ma c’è una cosa in particolare a rendere speciale l’aria di Manchester. No, non sto parlando dello smog che circonda la città, ma dell’Old Trafford.

L’Old Trafford è lo stadio che, dal 1910, ospita le partite del Manchester United. Fatta eccezzione del periodo che va dal 1941 al 1949, quando lo stadio venne bombardato dai tedeschi e i Red Devils furono costretti ad emigrare a Maine Road, impianto degli odiati rivali cittadini del Manchester City. Situato nella città di Trafford, facente parte della Great Manchester (area metropolitana della città), lo stadio è costruito con la classica architettura inglese e può contenere fino a 76.212 persone, il che lo rende il secondo stadio inglese più capiente dopo il nuovo Wembley.

All’Old Trafford si è scritta la leggenda, anzi si sono scritte le leggende. Perchè sotto i riflettori dell’impianto di Sir Matt Busby Way sono nati tutti quei giocatori elencati poco più sopra. E quando lo United giocava in casa e in panchina c’era Sir Alex Ferguson, uomo che non ha bisogno di presentazioni, la chimica tra la gente sulle tribune e la squadra aumentava nei minuti finali. Quando lo United era sotto, in casa, e mancavano pochi minuti alla fine, Ferguson portava il dito sul quadrante dell’orologio. Un po’ come a indicare a tutti che bisognava svegliarsi. E si svegliavano. L’Old Trafford si svegliava, entrava in un mondo onirico, fatto di una materia differente. Una materia che, se tua nemica, ti soffocava e non ti lasciava scampo. La stessa materia dei sogni. E non è un caso quindi se Bobby Charlton, negli anni ’60, si rivolgesse all’Old Trafford come al “Teatro dei Sogni”.

Ma oggi tutto questo sembra far parte di un passato lontano, lontano come quando appena sveglio cerchi di ricordare un sogno. Un sogno che non tornerà più, che si perderà inevitabilmente tra il mare di materia cerebrale. Il teatro dei sogni non vede più recitare quelle grandi opere a cui era abituato, qualcosa si è rotto.

Dal 2013, dall’addio di Ferguson, i Red Devils non sono più riusciti a svegliare quel gigante dormiente. Sono stati chiamati i migliori dottori del mondo, dall’Olanda, dal Portogallo e adesso qualcuno ha richiamato qualcuno che da Old Trafford c’era già passato, ma che poco può fare. Il titolo non è mai stato così lontano negli ultimi anni, la Champions League stessa potrebbe non essere alla portata dello United. Il teatro dei sogni chiuso in mezza alla settimana, che tristezza.

Lo United è passato in momenti bui, pensate che negli anni ’70 dopo l’addio di Best, la squadra finì addirittura in League One (Serie B dell’epoca). Come se lo stadio soffrisse l’abbandono delle sue più grandi star. Come se il teatro dei sogni avesse bisogno di un qualcuno capace di far sognare pure lui, non solo la gente che ospita.

In questi momenti l’Old Trafford si sta preparando per una sfida particolare. Miglialia di persone stanotte, in quel di Manchester, sogneranno. Sogneranno uno stadio gremito, tutto rosso, rosso fuoco. Sogneranno di alzarsi in piedi ad urlare, a gioire al pub dopo una vittoria. Il sogno più bello del mondo, l’incubo peggiore per quelli di Liverpool. Perchè all’Old Trafford, domani, andrà in scena la partita più sentita dell’anno. La partita che vale una stagione, dove tutti i sogni diventano realtà. Manchester United-Liverpool. Domani su quel terreno 22 giocatori vivranno l’ennesima opera del teatro di Manchester, nessuno può sapere se si tratterà di un bellissimo sogno, o del peggiore degli incubi.

Lo scugnizzo non è più bello a mamma sua

“Il problema è che Insigne deve capire cosa vuole fare da grande, perchè lui ha sempre avuto un atteggiamento di scomodità a Napoli”.

Queste le parole del Presidente azzurro Aurelio De Laurentis, che vanno ad alimentare un fuoco già di per se abbastanza ardente.
L’amore incondizionato tra Lorenzo e la ‘sua’ Napoli sembra stare definitivamente sfiorendo.

Nonostante 3 gol e 3 assist in 7 partite, l’ottava stagione di Insigne con la maglia del Napoli non è partita nel migliore dei modi: dei 9 match disputati dalla squadra di Ancelotti fino ad ora, ‘Il Magnifico’ è stato sostituito 4 volte, si è seduto in panchina 2 volte (una delle quali, contro il Brescia, senza neanche entrare) e si è addirittura accomodato in tribuna una volta (nella trasferta di Champions contro il Genk).

Insigne soffre il modulo di Ancelotti?

Sebbene siano arrivate le smentite da parte del fratello Antonio e i vari tentativi di calmare le acque, l’intervento di oggi di ADL appare come un altro fulmine in un cielo che sarebbe impossibile definire sereno.
È evidente che Lorenzo sia insofferente. Una piazza come quella di Napoli non è affatto facile soprattutto per uno come lui, così emotivamente e territorialmente coinvolto. A questo si aggiunge l’assenza di risultati concreti, di trofei, che rende il tutto ancora più difficile da digerire, soprattutto quando si è sempre sotto la lente di ingrandimento.

Lorenzo per forza di cose è quasi sempre il primo contro il quale si punta il dito, anche perché negli ultimi anni ci ha abituato a una certa alternanza di alti e bassi. Tutta questa situazione potrebbe non essere più di gradimento sia al giocatore stesso sia ad una parte dei tifosi e alla società, forse stufi dei ‘capricci’ del numero 24: lo scugnizzo sembra non essere più bello a mamma sua.

A questo punto sono varie le domande che sorgono: tenendo conto del fatto che una partenza a gennaio appare molto inverosimile, potrebbe partire a fine stagione? Se si, verso che destinazione? Insigne lontano da Napoli sarà in grado di esprimere meglio il suo valore o uscendo dalla comfort-zone rischia un’involuzione?
Tanti quesiti ai quali, ovviamente, solo il campo può dare una risposta.

Viaggio Verdeoro – 5.a Tappa: Rio de Janeiro – Parte 2

Rieccoci con il Viaggio Verdeoro, per analizzare le rimanenti due squadre di Rio de Janeiro: Vasco da Gama e Botafogo (di Flamengo e Fluminense abbiamo parlato qui).

Vasco da Gama

Il Vasco venne fondato nel 1898 da immigrati portoghesi, ed ancora oggi è la squadra legata alla comunità iberica.
Questo club storico, che vanta nel Palmares 4 titoli nazionali, 1 Copa do Brasil, 1 Copa Libertadores ed 1 Copa Mercosur (antenata della Copa Sudamericana), negli ultimi anni non sta attraversando un buon periodo, essendo costantemente in lotta per non retrocedere.

L’Estadio Sao Januario

Il club, che gioca le partite di casa nello stadio Sao Januario (ma le più importanti al Maracanà), è guidato da Vanderlei Luxemburgo, allenatore giramondo che in passato ha seduto anche sulla panchina del Real Madrid.

Capitano del club cruzmaltino è Leandro Castan, ex difensore della Roma, che in questa stagione è già a quota 2 gol ed 1 assist.
Vice capitano, nonché vero jolly della squadra, è il terzino Yago Pikachu: questo giocatore di 168 cm è in grado di giocare anche come mezz’ala e come esterno, su entrambe le fasce, ed è il rigorista della squadra.

La rosa del Vasco non spicca per talento, ma un giocatore in questa stagione si è messo in mostra, tanto da essere considerato in patria il futuro craque verdeoro: parliamo del 2002 Talles Magno, da tenere d’occhio nell’imminente Coppa del Mondo U17. Nato come attaccante centrale, si sta adattando a giocare sulla fascia sinistra, per convivere con Marrony, l’altro talentino (1999) del Vasco, su cui ha messo gli occhi il Bayern Monaco.

Talles Magno e Reinier (Flamengo), guideranno il Brasile nella Coppa del Mondo Sub17

Botafogo

Anche il Botafogo nasce come società di canottaggio, nel 1894, nell’omonimo quartiere di Rio de Janeiro. Squadra di campioni come Garrincha, vanta ben 23 titoli carioca (unica squadra a vincere il campionato statale in tre secoli diversi), ma a livello nazionale solamente 1 Brasileirao ed 1 Copa do Brasil.

La squadra bianconera, guidata dal traghettatore Bruno Lazaroni, gioca le partite casalinghe nell’Estadio Nilton Santos, e si trova a metà classifica in campionato, dopo esser stata eliminata in Copa Libertadores agli Ottavi dai connazionali dell’Atletico Mineiro.

A difendere la porta del Botafogo troviamo Roberto “Gatito” Fernandez, estremo difensore della Nazionale Paraguayana nonché uno dei migliori portieri del Sud America.

Oltre Gatito i due migliori giocatori del “Glorioso” sono Alex Santana, centrocampista del 1995 che ha messo a segno 5 reti in 15 presenze, e l’immortale Diego Souza. Chi segue il Brasileirao non può non conoscere questo attaccante 34enne, che in carriera ha vestito la maglia di ben 10 squadre brasiliane, oltre quelle in Europa di Benfica e Metalist.

Classifica e Marcatori

Dall’applicazione SofaScore
Ben tre dei primi quattro marcatori giocano nel Flamengo, la squadra che sta monopolizzando il campionato (fonte SofaScore)

La metamorfosi di Cristante

Anche se sei un giovane talento, non è detto che la tua carriera sia così semplice. Questo è quello che è successo a Bryan Cristante.

Il centrocampista giallorosso classe 1995 infatti, al Milan è considerato da tutti una giovane promessa del calcio italiano. Massimiliano Allegri crede in lui e lo fa debuttare a neanche 17 anni in Champions League. Centrocampista moderno: bravo nelle due fasi, buona tecnica e buona struttura fisica. Il Benifica non ci pensa due volte e decide di puntare su di lui, acquistandolo dai rossoneri per 6 milioni. Qui cominciano un po’ di problemi per il giocatore. Vista la sua bravura negli inserimenti, Cristante nasce mezz’ala, però l’allora tecnico del Benifca Jorge Jesus, lo vede più come regista. Infatti il centrocampista italiano è bravo anche nel passaggio corto e nel lungo, ed essendo dotato di un buon fisico viene schierato davanti la difesa. Dopo poche partite però cambia il tecnico dei portoghesi e sulla panchina arriva Rui Vitoria. Il nuovo allenatore non crede molto in Cristante mandandolo spesso in panchina.

A questo punto l’ex Milan decide di andare via. A puntare su di lui è il Palermo, che, a gennaio del 2016, decide di prenderlo in prestito. Anche in Sicilia il giovane italiano fa sia il mediano che la mezz’ala. Dopo 6 mesi in rosanero però non viene riscattato, tornando al Benfica che lo gira nuovamente in prestito al Pescara. Con la neo promossa abruzzese gioca molto (16 partite) senza brillare particolarmente. A gennaio 2017 però arriva la svolta. L’Atalanta ha perso Kessiè per la Coppa d’Africa: serve un centrocampista con doti di inserimento. Ecco quindi che la Dea decide di puntare su Bryan Cristante.

L’idea di calcio e soprattutto l’idea che ha mister Gasperini dei centrocampisti aiutano non poco il giocatore italiano. Il classe ’95 si integra alla perfezione nel sistema di gioco dei nerazzurri. Nonostante giochi da mezz’ala si abbassa spesso per iniziare l’azione, ma ciò non gli impedisce di inserirsi con costanza alle spalle della difesa avversaria. Cristante in appena 6 mesi sembra rinato, è tornato il talento del Milan di cui tutti parlavano. L’Atalanta non ci pensa due volte e lo acquista per circa 5 milioni.

La crescita del centrocampista non si ferma e Gasperini ha una grande intuizione: avanzarlo a trequartista. In questa posizione Cristante esplode. Non solo per i 9 gol che mette a segno, ma per la costanza di ottime prestazioni che fornisce. È un pericolo costante per le difese per le sue qualità di impostazione e nel tempismo di testa. Il centrocampista attira quindi su di sé i riflettori di molte squadre. La Roma riesce ad anticipare la concorrenza pagandolo circa 30 milioni. Cifra importante che dimostra quanto i giallorossi credano nel giocatore.

Arrivato nella capitale, in una nuova squadra e in un nuovo sistema di gioco, Cristante deve ambientarsi. All’inizio della sua esperienza giallorossa fatica a tornare ai suoi livelli. Mister Di Francesco lo schiera mezz’ala nel suo 4-3-3, l’ex Atalanta però non riesce ad esprimersi come aveva fatto a Bergamo. Quello che non manca mai nelle prestazioni del classe ’95 è l’impegno e l’intensità, per questo anche se non è brillantissimo, gioca molto. Di Francesco decide di passare al 4-2-3-1 per essere più coperto e Cristante viene abbassato, come al Benfica, a mediano davanti la difesa. Viste le caratteristiche prettamente offensive della Roma va in difficoltà, ma si intravede la bravura del centrocampista nell’interdizione.

Anche con Ranieri sarà titolare nei due davanti la difesa. Nonostante le prestazioni non siano al top, Cristante è molto importante per dare equilibrio alla Roma, non ultimo è un pericolo sui calci piazzati. I giallorossi cambiano ancora in panchina: arriva Fonseca. Il tecnico portoghese porta nella capitale il suo marchio di fabbrica: il 4-2-3-1. Dopo i primi allenamenti Bryan Cristante conquista il nuovo allenatore. Sin dall’inizio infatti Fonseca elogia e afferma quanto sia importante per il suo gioco il classe ’95.

Adesso segna di meno, ma il centrocampista giallorosso sta crescendo di partita in partita. I gol hanno lasciato lo spazio all’interdizione e all’impostazione. Infatti il numero 4 si abbassa spesso sulla linea dei difensori per far partire l’azione. Fonseca vuole da lui qualità e sostanza e Cristante (il più delle volte) lo sta accontentando con buone prestazioni nelle due fasi. Il centrocampista è migliorato molto nella visione di gioco e nella verticalizzazione. Spesso va alla ricerca della profondità o del cambio gioco con precisi passaggi lunghi. A livello difensivo invece, sta crescendo molto nel posizionamento e nell’ uno contro uno. Il classe ’95 non è perfetto infatti a volte si fida troppo delle sue qualità e perde pericolosi palloni in uscita. Questa sua pecca però non preoccupa mister Fonseca, anzi. Il tecnico portoghese è contento del suo giocatore per la personalità che mette in campo e i rischi che prende, vuole questo dal suo centrocampista. Inoltre a riprova di ciò, anche quando c’è stata la possibilità di avanzare il numero 4, l’allenatore giallorosso ha scelto di lasciarlo nei due mediani.

Non si può dire che Bryan Cristante non si adatti agli allenatori. La sua intensità, la sua bravura negli inserimenti e la sua abilità senza palla, ma soprattutto la sua intelligenza tattica, lo hanno fatto crescere esponenzialmente negli ultimi anni. Non a caso un certo Daniele De Rossi pochi mesi fa ha elogiato il classe ’95: “C’è un Bryan Cristante che non è romanista, è del Nord eppure io ne vorrei altri cento come lui. Ci mette l’anima in allenamento, in partita, sempre. Questo è lo spirito”. Investitura pesante, che il centrocampista romanista sta rispettando con costanti miglioramenti.

Tommaso Prantera (@T_Prantera)

I grandi campioni del passato.

Tutte le leggende sono vere. Tra queste vi è anche quella di un difensore centrale capace di segnare 253 gol in carriera tra club e nazionale.


È la storia di Ronald Koeman, il bomber atipico.

Koeman è nato a Zaanstad, nell’Olanda settentrionale, il 21 marzo 1963, in una famiglia di calciatori. Infatti suo padre e suo fratello maggiore hanno giocato entrambi nella massima serie olandese, certamente non con i risultati di Ronald, che porta con sè il record del difensore più prolifico della storia del calcio. La caratteristica più strana di queste 253 reti messe a segno dal difensore olandese è che la maggior parte sono arrivate da un tiro da fuori area o da un calcio piazzato. Il colpo di testa infatti non era la sua punta di diamante data anche la sua altezza: 1.82 m, un po’ poco per un difensore centrale.

Ronald giocava e si mise in mostra nelle giovanili del Groningen, ma il piccolo club del nord, che nel 1971 aveva preso il posto della “Groningen Football and Athletics Association”, andava stretto al giovane Ronald che infatti grazie sia alle sue ottime abilità tecniche e fisiche esordì in prima squadra all’età di 16 anni! Furono proprio i due fratelli Koeman a portare il Groningen nelle posizioni alte della classifica attirando così l’attenzione dei grandi club olandesi, ma anche di quelli europei. Fu in questo momento che le strade dei due fratelli si divisero, nel 1983 Erwin Koeman il fratello maggiore andò a giocare per il Malines, mentre Ronald, dopo 33 gol in 89 presenze con la maglia bianco verde del Groningen, andò all’Ajax.

Nei lancieri Koeman crebbe ancora, qui infatti vinse i suoi primi trofei in terra olandese. Era un Ajax ricco di talenti: oltre Ronald ancora ventenne infatti possiamo ricordare due calciatori che hanno fatto la storia del calcio olandese e rossonero, Frank Rijkaard e Marco Van Basten. Nella squadra di Amsterdam Koeman collezionó anche le sue prime presenze in coppa dei campioni. Dopo 23 reti segnate, un campionato vinto nel 1985 e una coppa d’Olanda 1986 Ronald Koeman si trasferì al PSV, dove si consacrò definitivamente.

L’esperienza con il PSV fu magica per Koeman. Qui condivise lo spogliatoio con il terzo olandese che rese grande il Milan: Ruud Gullit. Anche in questa esperienza Ronald confermò di avere il vizio del gol, segnando 51 reti in 98 presenze. Ma soprattutto portò anche questa squadra a vari successi con un ruolo sempre più di leadership: vinse tre campionati di fila, dal 1987 al 1989, e due coppe d’Olanda, una nell’88 e l’altra nell’89, vincendo per due volte il double nazionale, l’unico olandese a riuscirci sia da giocatore con il PSV che da allenatore nel 2002 con l’Ajax.

Nel 1987 il PSV di Ronald Koeman andò oltre i confini nazionali. Per la prima e unica volta nella sua storia, non però per Koeman, la squadra di Eindhoven vinse la Coppa dei Campioni in finale contro il Benfica, centrando così uno storico triplete.

Nel frattempo nel 1988 Johan Cruijff, che purtroppo aveva già appeso gli scarpini al chiodo da anni, lasciò la panchina dell’Ajax, dove aveva allenato l’ancora giovane ma già fortissimo Koeman, e approdò al Barcellona. In Catalonia Johan aveva lasciato il segno facendo innamorare migliaia di tifosi con il suo talento cristallino e riuscendo anche a vincere un campionato spagnolo e una coppa nazionale in uno dei tanti decenni in cui il Real Madrid sembrava inarrestabile. Cruijff a Barcellona voleva lasciare un segno ancora più grande da allenatore, ma sapeva che non bastava soltanto vincere per farsi ricordare: doveva far innamorare la gente e così creò, letteralmente, una squadra da sogni capace di giocare un calcio meraviglioso. Il Barça di quegli anni viene ricordato come il “dream team“, sia perché pieno di giocatori fenomenali, sia perché nel 1982 a Barcellona vi furono i mondiali di Basket, nei quali giocò, il vero dream team, quello a stelle e strisce guidato da un certo Michael Jordan. Ma con la squadra catalana ancora in fase di costruzione, il profetico Cruijff sapeva che sarebbe servito un difensore centrale capace di far muovere velocemente la palla: chi meglio di quel giovane ragazzo che aveva già allenato nell’Ajax, che ormai era diventato grande e vincente?

Era la fine degli anni 80’, uno dei periodi più belli per l’Italia: finalmente regnava la pace nel “bel paese” che ne aveva vissute tante. La nazionale era tornata forte vincendo il mondiale nel 1982 e le squadre di club dominavano il calcio europeo. Non c’era da stupirsi se la maggior parte dei calciatori stranieri voleva arrivare lì nell’Olimpo: in Serie A! Solo pochi resistevano al fascino italiano, tra cui Ronald Koeman, il quale si fece convincere e coinvolgere nel progetto del suo connazionale Cruijff, arrivando nel 1989 a Barcellona.

“Quando allenavo il Barça, ricordo che con Koeman o con Stoichkov giocavamo a non mettere dentro la palla, troppo facile, ma a colpire la traversa o uno dei pali, proprio per aumentare la precisione del tiro”. Questo divertente aneddoto di Cruijff spiega la qualità di quella squadra e l’importanza che ebbe Koeman per quella squadra.

Ronald arrivò in Spagna circondato tra gli scetticismi: “Perché così tanti soldi per un difensore?” “Perché tra tutti gli olandesi Cruijff è andato a cercare proprio lui?”. Erano questi i pensieri dei tifosi blaugrana, che però evaporarono senza più tornare dopo poche partite. Koeman conquistò il cuore dei suoi tifosi diventando un idolo al Camp Nou, segnò ben 67 reti in 191 presenze, numeri da trequartista. Da vero leader in campo portò il Barça a vincere per la prima volta nella storia blaugrana la Champions League nel 1992, come Micheal Jordan portò al successo la sua nazionale. In Spagna vinse anche quattro campionati gettando le basi per quello che sarà poi il grande Barcellona degli anni 2000.

A quasi 30 anni Ronald aveva vinto tutto ciò che poteva vincere, ma dopo l’esperienza blaugrana non voleva ancora smettere di giocare a pallone. Tornò così in patria al Feyenoord, dove non vinse ma continuò a timbrare il cartellino, segnando le sue ultime 19 reti con la maglia di un club.

Il difensore più prolifico di sempre ebbe un ruolo importantissimo anche in una delle nazionali orange più forti di sempre, seconda forse solo a quella di un decennio prima guidata da Cruijff. In nazionale Ronald segnò ben 14 reti e vinse l’europeo del 1988.

Si ritirò nel 1997 e intraprese la carriera da allenatore dove continuò a vincere prima con l’Ajax, con il double del 2002, poi con Benfica e Valencia, con le quali vinse le rispettive coppe nazionali.

Dopo l’esperienza inglese con Southampton ed Everton ora Ronald Koeman è alla guida della nazionale olandese che dopo anni di buio sta tornando grande guidata, guarda il caso, da due difensore centrali fortissimi e con il vizio del gol: Virgil Van Dijk e Matthijs De Ligt.

Le origini del tifo organizzato della Juventus.

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Se la squadra sta vivendo un ottimo periodo di forma, non è altrettanto così sugli spalti. Il tifo organizzato sta percorrendo una seria crisi. Recenti fatti di cronaca vedono l’arresto di 12 Ultras Bianconeri e l’emissione di 38 Daspo. Alcuni di essi per la prima volta decennali. I gruppi coinvolti sono tantissimi: “Drughi”, “Tradizione-Antichi valori”, “Viking”, “Nucleo 1985” e “Quelli… di via Filadelfia”.

Torniamo indietro con gli anni.

Il 30 Maggio 1973, al Marakana di Belgrado, andò in scena la finale di Coppa dei Campioni. La Juventus perse contro l’Ajax, la vittoria la guadagnarono nel settore ospiti: 50.000 bianconeri riempirono gli spalti. Fu l’inizio di tutto.

Verso la metà degli anni ’70 nacquero i primi gruppi organizzati. Primi tra tutti i “Globetrotters” e successivamente i “Venceremos” e “Autonomia Bianconera“. Tutti e tre su posizioni di estrema di sinistra.

Nel 1974 all’interno dello stadio nacquero: lo “Juventus Club Filadelfia“, il “J.C. Torin” e il “Primo Amore Umberto Sansoè“. Quest’ultimo vide la fuoriuscita di alcuni ragazzi che fondarono i “Panthers“. Sorse in risposta ai continui soprusi e violenze da parte delle tifoserie d’Italia nei confronti dei tifosi bianconeri. Nello stesso periodo, sempre intorno al gruppo Primo Amore, nacque “Fossa dei Campioni” con a capo Antonio Marinaro, detto anche “Jacky l’ultras”.

Bandierone dei Panthers, anni ’70.

Il “Gruppo Storico Fighters” con a capo la figura più importante del tifo juventino, Beppe Rossi, vide la luce nel 1975. Questo fu il gruppo più importante della Curva Filadelfia fino alla metà degli anni ’80. I Fighters esponevano il loro striscione al centro del settore, relegando le altre associazioni a destra, Fossa dei Campioni, e sulla sinistra, i Superstrars, mentre i Panthers scomparvero dalla scena. Da questo momento in poi fu rivoluzione nel tifo: il leader Beppe Rossi fece sparire i tamburi portando un tifo all’inglese, sciarpa e mani.

Nella metà degli anni ’80 nacquero e si susseguirono diversi gruppi. Tra quelli più conosciuti: “Gioventù Bianconera“, “Area Bianconera“, “Indians” e il “Viking“, quest’ultimo nato a Milano. Finirono con il riunirsi in un’unica denominazione, il “Nucleo Armato Bianconero“.

Nel 1984 i gruppi organizzati cominciarono ad avere problemi con la polizia che impose a tutti di riunirsi sotto un unica associazione. Sorsero i “Black & White Supporters” (nome imposto dalla polizia): durò appena 6 mesi. Nel 1987 i Fighters si sciolsero a causa di alcuni scontri avvenuti a Firenze con gli Ultrà Viola. Fu proprio questo l’antefatto che portò alla nascita di un progetto molto ambizioso: ex dirigenti dei Fighters si riunirono insieme ad altre schiere (Indians, Gioventù Bianconera) e fondarono il gruppo “Arancia Meccanica“, ispirato all’omonimo film di Stanley Kubrick. Il carattere violento del film portò ad un cambio di nome. Oggi sono conosciuti come i “Drughi.”

Questo gruppo fu il più strutturato di sempre, capace di portare a livelli altissimi il tifo organizzato. Dominerà la scena Juventina per quasi un decennio, portando tra le sue file 10.000 membri.

Nel 1993 ci fu la prima scissione interna ai Drughi. Una parte della tifoseria fece risorgere i Fighters, entrando in contrasto con l’altro gruppo presente in Curva Scirea. Nello stesso anno, dalla fusione di Viking e NAB, nacquero i “Viking Nab“, che successivamente andranno ad occupare la Curva Nord per i contrasti con i Fighters. Il neo gruppo era d’ispirazione elitaria e si differenziava per una ottima organizzazione e per una propensione al viaggio. Fu una delle migliori seconde curve di sempre.

Nel 1994 i gruppi Fighters, Drughi, Vecchia Guardia e Fossa dei Campioni si incontrarono più volte con la volontà di collaborare. Solo nel 1997, senza i Fighters, le tre compagnie fondarono a vent’anni di distanza l’unione “Black and White Fighters Gruppo Storico 1977“, lasciando così la Curva Nord per trasferirsi nella Sud.

Il loro posto fu preso dagli “Irriducibili Vallette” che nacque nel 1990. La comitiva prese il nome dall’eponimo quartiere di Torino. Il primo anno contarono oltre 500 membri, ma si sciolsero comunque anni dopo.

Dal 1995 al 2001 comparvero in Sud “Fronte Bianconero 1995“. Sempre nella stagione 95-96 nacque, da una scissione interno al gruppo Aerea Bianconero, Nucleo 1985 in riferimento ai fatti dell’Heysel.

D’ora in poi entriamo nella recente storia della tifoseria bianconera. Dal 2006 in poi le ripartizioni rimasero le medesime. Ci fu solamente un cambio di nome da parte dei Fighters, che divennero prima “Tradizione Bianconera” e successivamente “Antichi Valori“. Nella stagione 2011-12 ci fu l’inaugurazione del nuovo impianto, L’Allianz Stadium, con spostamenti nei nuovi settori. Tutti i gruppi si sistemarono in Curva Sud. I Drughi con Magenta e Ponente, e i Bravi Ragazzi (ex Irriducibili) al secondo anello. I Viking insieme ai gruppi: Tradizione e Antichi ValoriNucleo 1985Gruppo Marche, al primo anello.

Dall’insediamento nel nuovo stadio ad oggi è successo praticamente di tutto. Il tifo organizzato della Juventus è entrato in contrasto con la società. Ci sono state denunce, indagini e infine molti arresti. Il nostro augurio è che il tifo organizzato della società torinese possa ancora fare la storia, perché anche se non si è bianconeri, non c’è cosa più triste che essere circondati da spettatori piuttosto che da tifosi.

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